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Magenta e il Bruno “delle luci”, in memoria di Bruno Cavalazzi (di Emanuele Torreggiani)

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MAGENTA – Se ne stava lì, alle prime ombre della sera, sul portone della sua officina a guardare il traffico di passaggio lungo la via Milano, incrocio via fratelli Sanchioli (tre fratelli ragazzi, Francesco, Giuseppe, Mario, caduti sul fronte alpino orientale nel 1917), salutando, con un cenno a sorriso, i conducenti delle auto al passo i quali avevano avuto, nel corso degli anni, necessità di fermarsi per una rimessa operativa del mezzo; se ne stava lì: camicia di flanella a quadri e calzoni blu; stile comune di quel lavoro operaio in quegli anni.
L’ora era prossima alla chiusura delle serrande scorrevoli e coincideva con l’attimo del suo riposo, dopo aver battagliato nella giornata tra impianti elettrici “che ad ogni tornata son sempre più complicati che anche un ingegnere ci va a perdere la testa”.

In quell’attimo del suo riposo interiore, coincidente con il canto dell’anima, il Bruno, come molti, forse tutti gli uomini che camminano sulla terra, coltivava la memoria di un grande amore perduto. Fissava, nelle serate limpide, quel lungo tramonto che assume al cielo colori a sussurro. Ascoltandoli rivedeva un volto che lui solo conosceva. Il Mario. “Pör fioeu”, povero figlio, povero ragazzo, povero fratello, che gli era stato portato via così, come un arnese, in quegli anni canelupo della seconda guerra. Rubato via dai rastrellamenti e inviato al lavoro coatto in Germania e bruciato lassù, assassinato. Uno tra i milioni. Bigia cenere.

Era suo fratello maggiore, Mario Cavalazzi, il gigante della famiglia, soprattutto per il Bruno ancora un “nani”, un bambino. Quando andava parlandone i suoi occhi assumevano luce viva, quel fiat lux ancestrale che in ciascuno illumina, e la sua fisionomia adulta, già padre e nonno, richiamava il volto del bimbo che era stato, felice tra le braccia del fratello grande. “Abbiamo visto quasi tutto”, e così, ritessendo il filo del dire, rincorreva alla lontana giovinezza. Al Gamba de Legn, il “tranvai”, alla Milano, la metropoli, dove attendeva, quale apprendista in officina, ragazzo di bottega, ed imparava gli strumenti del poi suo lavoro artigiano. Nella Milano, agli anni del primo dopoguerra, già ne giravano di auto e camion, e bisarche a tre rimorchi carichi di mattoni, e motocarri… ed era sempre un traffico di lavoro che ad “accontentare tutti la giornata aveva da durare tre volte con dentro il sabato e la domenica”. Si fece le ossa, come si diceva, sottintendendo in quel magro ‘farsi le ossa’ l’educarsi al mestiere contestualmente all’educarsi nel progettare la vita che mai sarà disgiunta, distaccata, dal gran lavorare. Quell’educarsi nel quale si coglie il tirarsi fuori, il camminare al passo. Pertanto, commisurando il salario con il risparmio, lasciò la metropoli per aprire, in via Milano la sua officina, nel cortile dove insisteva la trattoria ‘Da Carletto’ dei fratelli Maerna.

La via Milano, in quegli anni, era l’unica strada che conduceva, verso ponente alla aristocratica e operaia Torino e verso levante alla borghese e operaia Milano, direttamente davanti alla San Siro gloria di Benito Lorenzi detto ‘Veleno’ e di Alberto Schiaffino ‘l’uruguagio’. E Magenta, che aveva nel mezzo il trapasso della dorsale statale, era una piccola città di costante traffico e di grandi fabbriche. Quindi movimento, oggi si dice logistica, pertanto mezzi. Ed i ferri, anche dei più nuovi, hanno sempre necessità di una messa in riparazione. Bruno Cavalazzi fu il primo elettrauto ad aprire bottega in città. Candele, lampadine, impianti, batterie, alternatori, volani, cinghie, interruttori e, in quel via vai costante, ogni cliente, autista, viaggiatore, camionista, piazzista, partecipando in presenza al lavorio d’intorno il mezzo, andava raccontando e della sua vicenda e delle geografie stradali che si stavano ramificando lungo pianure e colline e contrafforti e monti, asfalti in perenne disputa tra Alfisti e Lancisti.

Lavorando si era messo a ‘parlare’ con una ragazza, la sua Elena Bozzi che gli sarà consorte e madre dei loro figli: Maria Adele, Laura, Cristina, Carlo, Massimo, Maria Pia. E così, crescendo famiglia e lavoro, Bruno Cavalazzi traslocò a poche centinaia di metri, sempre lungo l’asse di via Milano, in quello stabile dove oggi campeggia la scritta blu ‘Elettrauto Meccatronici Fratelli Cavalazzi’ in campo giallo. Al piano superiore aveva accomodato la sua abitazione. Quel “casa e bottega” che sarà stato, per decenni, il compimento di una riuscita per la corporazione artigiana e commerciale. Dove, la comodità del vivere familiare contiguo, veniva intervallata dal campanello che suonava nei dì di festa e nelle nottate degli inverni solenni di nebbie e gelo, i mezzi come si sa… e lui, il Bruno, si levava dalla tavola o dal talamo e scendeva la rampa di scale con un sospirone, “anche quello lì che scampanella avrà da ritornare alla sua”.
Contestualmente al suo lavoro mai dismesso sino agli ultimi mesi, negli anni della piena maturità, vedendo la sua officina avviata e solida e accompagnata a nuova, costante innovazione, nelle salde mani dei suoi figli, Bruno Cavalazzi si adopera per la corporazione degli artigiani. Quel suo “noi artigiani”, che stanno già vivendo in decenni eufemisticamente dolorosi. Si impegna, dunque, per l’associazione artigiani, divenendone presidente e, si sottolinea, in modo totalmente disinteressato. Disinteressato. E non suoni cosa da poco. Per questa generazione, in abbrivio per l’ultimo passo, ciabattini, fabbri, falegnami, meccanici, muratori, sarti; una scarpa, una inferriata, una seggiola, una rettifica, una casa, un abito; era l’oggetto in cui sigillavano la propria identità. Annuivano, in un muto sorriso soddisfatto, ad opera ultimata. Lì, in quel fare il lavoro, essi riconoscevano il loro essere umano. Vita, la sua di Bruno, dunque consimile a molte, moltissime, che interpreta il modello di Giuseppe, Giuseppe il Lavoratore.

Frattanto, e seguendo la cifra degli antichi maestri, nel quotidiano del vivere la morte ‘viene dietro a gran giornate’. Mai si saprà il quando, e così ci furono ancora i giorni per indossare il ‘Galles’ domenicale e la camicia bianca e la cravatta e le scarpe lucide a mogano e, inforcata la bicicletta, scendere quei cinquecento passi sino alla piazza Liberazione, al caffè Maino, per un espresso macchiato e le quattro parole coi tanti, tutti in città, che egli conosceva e gli corrispondevano. Poi, al primo tocco del mezzodì, rientrare per il pranzo domenicale. La famiglia tutta al desco, figli e nipoti: Marina, Marco, Stefano, Riccardo, Carlotta, Filippo, Beatrice, Matteo. Così andava celebrando il suo “lusso nell’averli tutti intorno”, in quel gran vociare di prole, età e sentimenti che, appena scemava, se ne andavano, la casa rimbombava cava. E quasi quasi, se qualcuno gli suonava per un guasto gli faceva anche sollievo.

Infine arriva ‘nostra sorella morte corporale’. E negli ultimi giorni, mentre combatteva l’ultima battaglia, invisibile a chiunque ma non a lui, ecco il Mario. È lì. Si parlano in una lingua che non si può tradurre e si accompagnano in un mondo che non si può descrivere, ‘trasumanar, significar per verba non si poria’. Trapassando per la via, a fuga d’occhio, par di scorgerlo: camicia di flanella a quadri e calzoni blu. Sentinella della sua officina. Era, il signor Bruno Cavalazzi, un uomo buono.

Adesso, sia concessa, una chiosa personale. Egli mi ha sempre manifestato affetto e trasporto paterno, sentimento di cui gli sono profondamente grato. Accolgano così, i suoi familiari tutti, l’espressione del mio cordoglio.

Emanuele Torreggiani 

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