Gli spettri di Milano e i ghisa di Sala. Niente e nessuno- di Emanuele Torreggiani

Non toccare la macchina barbon, cantava Jannacci, con quella voce sua impastata di pianto antico, conosci la strada per l’idroscalo? quella voce ancora capace di vedere la realtà e non già prigioniera della caverna 2.0

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Il bigio odierno richiama il pomeriggio di decenni andati avanti, ch’è qualità del passato dove il tempo si dispone a platea ed ora un suono, una luce, un’ombra, una voce, un profumo, un gesto, aprono una quinta che illumina la recita. Milano, Pizza Armando Diaz, s’era al crinale dei Settanta e nominare il generale era la carne viva della Vittoria e, come mi accadde in una cena in un albergo montano, i commensali, al toponimo Vittorio Veneto, si levarono in piedi tutti dal desco ed io, richiamato all’istante, mi alzai arrossendo. Il bigio odierno dunque richiama il portico di Piazza Diaz, quel gelo decembrino fasciato di smog di camini fumanti carbone, olio combustibile, kerosene.

Lì, sotto il porticato post bellico rivestito di granito grigio, un uomo in piedi. Osservandolo al volto rubizzo lavorato dall’aria gelida e incorniciate le guance da un berretto con para-orecchi di foggia militare, scorsi che indossava una sciarpa di lana grossa lavorata ai ferri, due capotti lunghi al polpaccio, i mezzi guanti, le dita carpiate e violacee, un paio di stivali di gomma dai cui gambali s’intravvedeva una imbottitura di paglia. Dinanzi teneva un tavolino di legno ripiegabile ove aveva disposto in ordine una dozzina di libri di editori d’anteguerra ed un Enrico Ibsen “Spettri” in quella BUR dei primi Cinquanta, un tascabile dalla copertina grigia. Scrivendo questa nota lo individuo sugli scaffali deposto con un’altra cinquantina a tombe di militi presto ignoti. Ma sia.

Lo pagai trecento lire, più o meno l’equivalente di venti centesimi e feci scivolare il piccolo tomo, gelido a selce, nella tasca del loden d’ordinanza. Trapassò una ventata e scossi il capo a riaccomodare i capelli e lui disse, non a me, ora lo so, disse ad alta voce per incidere la voce nel grande spettro dell’aria, anche tu come Marco e s’assise in un sorriso, radi i denti tra le labbra bianche e accettò la lusinga d’una Gitanes e dell’accendino a pietra focaia e del fuoco ch’è, ogni fuoco, il padre della parola. Parlava intercalando strofe, quindi era il suo unico Marco che tendeva la pargoletta mano e lui, il padre perse l’abbrivio per la città dolente, per l’eterno dolore. E andai che parlava ancora, a quel sé in cui si riconosceva e s’incantava. Dormiva lì. Si levava lì. Viveva lì. Al bar sotto il portico gli concedevano il bagno, un latte, un cornetto. Non era che un barbone. Non toccare la macchina barbon, cantava Jannacci, con quella voce sua impastata di pianto antico, conosci la strada per l’idroscalo? quella voce ancora capace di vedere la realtà e non già prigioniera della caverna 2.0. Al limitare dell’estate non lo vidi più, chiesi al bar e scossero il capo, non era rimasta traccia di lui, niente e nessuno.

E così l’altro giorno, leggendo della multa comminata per occupazione abusiva di suolo pubblico ai barboni radunati in Galleria dall’associazione Pro Tetto per un desinare all’aperto, eccolo, niente e nessuno, ricomparire. Lo spettro, mai titolo così più coincidente, barbone tra barboni. I moralisti affermano che i vigili hanno fatto il loro dovere. Già, anche Franz Stangl lo fece. Anche i signori di Dio che l’altro ieri hanno impiccato la giovinetta a Theran la mattina sul presto, anche il direttore di banca che vende prodotti tossici e marci ai correntisti che hanno risparmiato ogni briciola, tutti fanno il loro dovere. Tutti. E poi, alla fine, e vale per tutti, niente e nessuno. Spettri.

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