Giuanin, Basleta, Ceramica: le mille vite di Giovanni Lodetti, ‘resistente’ al calcio moderno e apolide- di Teo Parini

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Per quelli con un numero sufficiente di primavere sulle spalle, ad andarsene qualche giorno fa è stato il Basléta – a Milano è, anzi era, il nomignolo tipico di chi ha un mento pronunciato – all’anagrafe Giovanni “Giuanín” Lodetti. Il diminutivo ha ovvie ragioni, Lodetti fu, infatti, giocatore tascabile, forte di una statura ridotta e di un baricentro decisamente basso. Professione mediano, quando ancora il calcio era una cosa semplice e il numero otto sulla maglia stava ad indicare che si era chiamati a fare tanta fatica, di gambe e polmoni.

Lodetti, classe 1942, ha incarnato nell’immaginario calciofilo la parabola di chi, senza aver incassato una particolare benevolenza da madre natura, è arrivato in alto, forte di passione, sacrificio, intelligenza. Fosse stato il protagonista di un film, Giovanni avrebbe recitato la parte di Ludovico “Lulù” Massa in ‘La classe operaia va in paradiso’, il capolavoro di Elio Petri interpretato magistralmente da Gian Maria Volonté. Lulù era amato dai padroni perché, questi ultimi, confondevano la diligenza operaia con il servilismo. Giovanni, operaio del fòlber, il soccer, era amato proprio perché, al contrario, il suo inesausto lavoro sporco oltre che essere redditizio consentiva a chi gli fosse al fianco di fornire di sé la migliore versione possibile. Rivera, per esempio, del quale, come si disse all’epoca, Lodetti fu il terzo polmone. O forse il secondo, considerate le attitudini non propriamente da maratoneta del Golden Boy. Il fosforo di una compagine, qualità che sta al centrocampista come la scaltrezza sta all’attaccante: indispensabile.

Per la verità, su questo si è un po’ romanzato negli anni a venire, Lodetti non è che fosse proprio così scarso in quanto a tecnica di base, anzi, fu dotato di una certa educazione che gli consentì, appunto, di essere, insieme, uomo di corsa e di costruzione. Con il Milan di Nereo Rocco ha vinto tutto quel che c’era da vincere ed è a quel periodo storico che si legano le sue migliori fortune calcistiche. Anche se, a nemmeno trent’anni, fu malamente scaricato proprio da quel Rivera, di fatto la società, di cui fu fedele gregario per quasi un decennio e dovette reinventarsi un finale di carriera altrove, diverso da quello che si sarebbe aspettato. Due gol, Lodetti, li mise a referto anche in nazionale dove disputò una ventina scarsa di partite con la gioia dell’Europeo del ’68 vinto tra le mura amiche. Prima del pasticcio in Messico, solo due anni più tardi, quando fu prima convocato per il Mondiale e poi rispedito a casa senza troppi complimenti per fare spazio ad un attaccante in più.
Basléta non ha mai smesso di sentirsi un calciatore, fino alla fine. Parco Trenno, zona Milano ovest, racconta la storia di un signore non più giovanissimo che al sabato mattina se ne sta lì a bordo campo a guardare inseguire il pallone da ragazzi che per anagrafica potrebbero esserne figli. In silenzio, fino al giorno in cui si accorge che una delle due squadre amatoriali può contare su uomo di meno e, senza pensarci su, chiede di poter entrare. “Sei vecchio”, gli dice uno. “Gioco anche in porta”, gli risponde. “Dai entra”. Lodetti si piazza in mezzo, la sua comfort zone, e comincia a fare quel che gli riesce meglio: mettere ordine. “Sei bravo, vecchio. Qual è il tuo nome?”. Indossa una maglia da lavoro, di quelle con la pubblicità sul petto, con la scritta “Ceramica”. “Mi chiamo Ceramica”, dice, mentre i compagni lo fissano ancora più incuriositi. Saranno un’infinità i sabati che Giovanni trascorrerà al parco, tutti un po’ uguali a quelli che l’hanno preceduto fino a quando un uomo di passaggio riconosce in lui una mimica già vista. “Hey, ragazzi, ma sapete chi è? È Giovanni Lodetti!”. Perché lo sport è un amore che non finisce mai.

Indispettito dalla brutta piega che il mondo del calcio aveva ormai preso, tra i diktat delle televisioni e l’esibizionismo mediatico dei suoi protagonisti, Lodetti era solito ricordare che, se fosse stato chiamato a far da allenatore, come prima cosa avrebbe portato i suoi giocatori fuori dal cancello di una fabbrica, quando ancora ne esistevano, per sbattere loro in faccia l’entità del privilegio che assicura l’essere bravo con i piedi. Si chiama rispetto per lo sport, che della vita è meraviglioso paradigma. Fai buon viaggio, Basléta. Insegna agli angeli, vestiti griffati e malati di selfie, che ad essere umili non si sbaglia mai.

di Teo Parini

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