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Filippo Facci, garantista ‘granitico’, ci ricorda la vergogna del caso di Enzo Tortora 40 anni dopo

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La vergogna giudiziaria che investe Enzo Tortora comincia il 17 giugno 1983, quindi all’incirca esattamente 40 anni fa. Ricostruiamo ancora una volta (non basta mai) quanto accaduto al popolare conduttore televisio, che morirà pochi anni dopo di cancro e di malagiustizia, grazie alla penna garantista ed acuminata di Filippo Facci, icona del giornalismo coraggioso e garantista. Buona lettura.

SU ENZO TORTORA
Data del primo arresto di Enzo Tortora: 17 giugno 1983.

Professione dell’arrestato: presentatore televisivo, in quel periodo il più popolare del Paese.
Professione del primo dei principali accusatori, Giovanni Pandico: ergastolano per triplice omicidio, calunnia, tentato parricidio, incendio dell’abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre, tentato avvelenamento della fidanzata di 14 anni.
Professione del secondo dei principali accusatori, Pasquale Barra detto “O animale”: ergastolano per omicidi plurimi tra i quali (in carcere) quello del boss Francis Turatello cui aveva divorato le viscere ancora calde.

Numero degli arrestati per errore insieme a Tortora: 209.

Frammento di un articolo apparso sul Corriere della Sera a firma Luciano Visintin: “Tortora è personaggio dalle mille contraddizioni. Ligure spendaccione… osservatore ma al tempo stesso attore e portato all’esibizione… incline a un’affettazione non lontana dall’effeminatezza ma notoriamente amato dalle donne e propenso ad amare le più belle”.
Frammento di un articolo apparso sul Messaggero a firma Costanzo Costantini: “Tortora desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata”.

Frammento di un articolo apparso sul Secolo XIX a firma Luigi Compagnone: “Egli è solo uno dei tantissimi pessimi esempi dell’italiano che, sotto la lacrimuccia televisiva, nasconde il suo ardore per il danaro: e quindi è disponibile a tutto”.

Frammento di un articolo apparso sul Corriere della Sera a firma Adriano Baglivo: “Chi avrebbe mai pensato – ha detto con profonda amarezza il magistrato – che dietro una faccia che invoca umanità e che è vicina al dolore, si nasconde un cuore di pietra, una sporcizia impensabile”.

Frammento di un articolo apparso sul Secolo XIX a firma Luisa Forti e dedicato all’accusatore Gianni Melluso: “La camicia immacolata, la cravatta in seta gialla, le scarpe nuovissime ancora scricchiolanti, i capelli lucenti di shampoo, almeno due accessori made in Napoli (l’orologio rosso Ferrari e la cintura beige coccodrillata con fibbione Pierre Cardin), lo sciccoso Gianni Melluso si è presentato davanti ai giudici in un lino primaverile, guarda caso tinta tortora, con taschino impreziosito da stilografica d’oro. Preciso, tagliente, alle volte fin troppo pignolo, è apparso implacabile”.

Articolo di Filippo Facci usacito sabato su Libero:
Il refrain non è mai cambiato: occuparsi del caso Tortora, un tempo, significava fare gli interessi della camorra; condannare l’abuso del carcere preventivo, poi, significava riabilitare Craxi; e ogni sillaba protesa al cambiamento di una giustizia da schifo, ancor oggi, diventa una scusa difendere degli interessi persino del Berlusconi defunto.

La Magistratura che osa parlare è sempre quella. I suoi servi, pure. Tocca ricordare che nessuna toga del caso Tortora ha mai pagato un’oncia della propria carriera: Felice Di Persia è diventato membro del Csm e procuratore capo a Nocera inferiore, Lucio Di Pietro è diventato procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia e Procuratore generale a Salerno, Luigi Sansone è diventato presidente di Cassazione, Orazio Gattola presidente di sezione a Torre Annunziata, Diego Marmo è diventato procuratore generale presso il tribunale di Torre Annunziata. Molti di questi magistrati, negli anni, hanno anche querelato vari giornalisti e denunciato gli avvocati che avevano vanamente promosso una causa civile contro di loro.

Vanamente, sì: perché le ispezioni ministeriali promosse dall’allora ministro Sebastiano Vassalli non diedero risultati, e anche il plenum dl Csm votò a maggioranza l’archiviazione di ogni accusa. Fu tutta una corporazione a restare impunita, allora e sempre: il referendum promosso dopo il caso tortora, quando nel 1987 gli italiani votarono a favore della possibilità di punire i magistrati per cosiddetta «colpa grave», rimase lettera morta.

Nel giugno di un anno fa, quando si tentò di riproporre quel referendum ma non si raggiunse il quorum – con la stessa magistratura a opporsi, naturalmente – a votare per il cambiamento anche un certo magistrato in pensione, Carlo Nordio, più altri giornalisti – pochi – tra i quali una certa Gaia Tortora, una collega, una con un padre – dicono – famoso.

Ma forse non abbastanza famoso, visto che nel 1994 la giunta di sinistra di Genova respinse la proposta di dedicare una via a Tortora perché «non è abbastanza conosciuto a livello nazionale», disse l’assessore del Pds Paola Balpi, e quella via sarebbe stata «un attacco generalizzato ai giudici, continuativo della strategia berlusconiana», disse il capogruppo pidiessino Ubaldo Benvenuti: e pensare che gli ex comunisti genovesi si erano appena visti ingabbiare il loro sindaco Claudio Burlando, poi assolto.

E’ gente che difenderebbe certa magistratura anche se arrestata ingiustamente: perché ogni cosa va piegata alla linea.

L’ultimo episodio è personale, ma emblematico: si svolse venerdì 13 settembre 2013 proprio alla Festa di «Atreju» dell’acerbo partito Fratelli d’Italia, sull’isola Tiberina, a Roma, presente il sottoscritto, Marco Travaglio e il presidente dell’Associazione magistrati Rodolfo Sabelli. Parlai per primo e scelsi una linea morbida che non disdegnasse le colpe della politica, dell’avvocatura e neppure le colpe che la magistratura non aveva. Non servì a nulla, non ci sentivano, parlarono d’altro, e persino sul caso Tortora, ricordato dal collega Antonello Piroso intervenuto durante quel dibattito, dissero che era una cosa «risalente a 30 anni fa, quando era in vigore il vecchio Codice» e Travaglio precisò che «i guai della giustizia sono altro dalla magistratura», e che il tasso di corporativismo della medesima è «fisiologico». Fisiologico: l’unico potere mai riformato dal Dopoguerra, sempre lo stesso moloch inquisitorio che distrusse Tortora, poi si trasfuse in un Nuovo Codice fatto a pezzi dalla prassi di Mani pulite, sino all’oggi, dove tutto non deve cambiare perché nulla cambi.

Filippo Facci

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