Quello che poteva essere e in parte è stato: Dominic Thiem ha detto che può bastare così. La sconfitta subita contro l’azzurro Luciano Darderi nel torneo di casa – Vienna, lo stesso che lo lanciò ormai tredici anni fa, quando nel più classico dei ricorsi storici aveva messo fine alla carriera di Thomas Muster, il suo connazionale più forte di sempre – passerà alla memoria del tennis come il suo ultimo match da professionista. A soli trentuno anni. Pochi, considerato che il gotha della generazione precedente, quella nata negli anni ottanta, è ancora parzialmente in sella. Generazione dei fenomeni che ha finito per limitare l’ascesa della sua; la stessa dei vari Raonic, Dimitrov, Zverev e Tsitsipas, solo per citarne alcuni. Eccellenti giocatori che, tuttavia, non hanno saputo subentrare a gamba tesa agli illustri predecessori ai quali, nonostante il cospicuo vantaggio anagrafico, hanno sempre ceduto il passo quando la posta in palio si è fatta importante.
Gli Slam, per esempio. Eccetto uno, fino all’avvento di Medvedev, gli Us Open del 2020 che proprio Dominic è riuscito a strappare al triumvirato pigliatutto – Federer, Nadal, Djokovic (con Murray e Wawrinka) – che ha riscritto la storia del gioco. Dopo una lunga rincorsa, quindi, Thiem in un solo colpo faceva proprio il torneo più importante della carriera e, in conseguenza a ciò, si issava al numero tre del ranking mondiale. A ventisette anni tutto lasciava presagire al compimento di un nuovo dominio. Invece, New York ha significato per l’austriaco l’irripetibile vertice della parabola, il punto più alto della scalata prima del precipitoso ramo discendente. Quando si dice che il difficile è mantenersi in vetta, piuttosto che raggiungerla, non è solo una frase fatta e Thiem lo ha imparato sulla propria pelle.
Il nuovo status acquisito, perché vincere un Major fa tutta la differenza del mondo, ha fatto sfracelli nella testa di un ragazzo che, in un amen, ha perso la determinazione che l’aveva portato così in alto e che sarebbe stata necessaria per rimanerci a lungo. Come spesso accade, la sfiga ha la vista lunga e le disgrazie viaggiano in coppia e, per Thiem, ha significato il dover far di conto, da lì a poco, con un brutto infortunio al polso che lo ha costretto prima ad un lungo stop e poi ad un faticoso e, a conti fatti improbo, recupero psicofisico. Morale, la furia agonistica capace di far esplodere la pallina ad ogni impatto non esisteva più. Tanto devastante in campo, forte di fondamentali dalla potenza con pochi eguali, tanto moderato nella vita fuori dai ground. Gentile e sempre misurato, sottovoce. Senza gli occhi iniettati di sangue di chi è programmato per competere sempre alla morte.
Nato nel ‘93 a Wiener Neustadt, Bassa Austria a ridosso del fiume Leitha e capoluogo dell’omonimo distretto, Dominic, professionista dal 2010, ha al suo attivo diciassette tornei ATP, tra i quali spiccano il già ricordato Flushing Meadows e il 1000 di Indian Wells strappato dalle mani di Federer. In bacheca altre tre finali Slam, delle quali due al Roland Garros e una a Melbourne sciaguratamente persa contro Djokovic, e una finale alle ATP Finals, il Master che fu e che chiama a raccolta i migliori otto giocatori del seeding. Proprio a Parigi, Thiem, per quasi un lustro, ha rappresentato l’alternativa più qualificata alla brutale tirannia rossa di Nadal. Tra il 2016 e il 2018, infatti, ha messo a referto in serie due semifinali e due finali, lasciando intendere che per sollevare la Coppa dei Moschettieri sarebbe stata solo questione di tempo. Trionfo che, però, resterà incompiuto.
Ma è proprio sul mattone tritato che, con ogni probabilità, ha dato il suo meglio, dove per caratteristiche tecniche e attitudinali ha saputo spingere l’asticella più in alto, fino a dare l’impressione, appunto, di poter contendere l’attestato di miglior terraiolo al mondo a sua maestà Nadal, e già l’idea che potesse ambire ad esserlo è il suo riconoscimento più prestigioso al di là dei trionfi. Un tennis dispendioso, il suo, perché perennemente in spinta e perché giocato molto spesso con i piedi distanti dalla riga di fondo. Che, per i meno avvezzi alle dinamiche della disciplina, significa tanta corsa per la difesa del campo e altrettanto vigore atletico per il surplus di gittata richiesto a colpi scagliati da così lontano. Non è da escludere che la somma algebrica di questi aspetti abbia contribuito ad accorciare la carriera.
Tuttavia, finché ha potuto, Dominic è stato in grado di rendere sublime la disciplina perché depositario di una competenza tecnica da primo della classe nella quale spiccava un rovescio ad una mano, insieme, antico e moderno. D’antan nel gesto quasi estinto; antesignano nella capacità di farne un colpo di offesa letale. Iconica, appunto, la sua sbracciata rovescia, paradigma di potenza e vigore ma senza sacrificare l’eleganza di un colpo che mai annoiava. Con dritto e servizio competitivi e funzionali al suo power-tennis, Dominic ha potuto contare anche su una mano di ottima sensibilità che gli ha consentito sia di esplorare con costrutto entrambe le rotazioni note al tennis – facendo dello slice di rovescio uno strumento spesso decisivo – che di finalizzare a rete, senza i patemi che caratterizzano i suoi coetanei, la gigantesca mole di lavoro prodotta bombardando l’avversario dal fondo del campo. Un tennista completo e senza buchi neri nel gioco e, pertanto, buono per tutte le stagioni. Non così a proprio agio solo sull’erba, tanto che a Wimbledon, il tempio, Dominic non si è mai spinto oltre il quarto turno raggiunto in una sola occasione. Chissà, magari per via di aperture nel portare i colpi un po’ troppo ampie per i tempi e i rimbalzi dei prati, tant’è che in Church Road il feeling non è mai sbocciato ma ciò non sposta di una virgola il giudizio su un giocatore straordinario capace di coniugare rendimento e bellezza.
E pure fragilità mentale, a renderlo umano. Un aspetto, quest’ultimo, delicato e personale del quale non si è mai vergognato, al punto da rendere di dominio pubblico le difficoltà psicologiche insorte già all’indomani della vittoria Slam. Il compimento del suo sogno più grande che, paradossalmente ma non troppo, ha frantumato per sempre la ferocia necessaria per essere quel tipo di agonista. Per chi se la ricorda, la finale degli Us Open contro Zverev fu tecnicamente tra le peggiori che si ricordino a memoria d’uomo ma, in compenso, dall’elevato carico pedagogico. Quel giorno, infatti, Thiem e il suo avversario giocarono dilaniati dalla paura di vincere con un consumo di energie nervose abnorme che ha finito per lasciare un segno indelebile nella testa di entrambi. E per Dominic, in quanto a tennis, nulla fu più lo stesso. Detto a beneficio di coloro, e sono in tanti, che non hanno chiaro in mente quanto sia complicato il gioco del tennis e, soprattutto, quanto pretenda dall’uomo il professionismo.
Tornando a ieri, in un palazzetto gremito e commosso, Thiem ha detto basta con tutto ciò. Si chiude, così, il percorso tennistico del giocatore che più di ogni altro ha sfidato gli déi riuscendo talvolta a batterli. Allora, buona pensione Domi. Vederti far sanguinare la pallina a suon di schiaffoni di rovescio ci ha fatto divertire un sacco e non si può che dirti grazie.