Domenica del Mondiale, finalmente ci siamo. Si corre a Zurigo e l’orografia è, appunto, tipicamente svizzera. Corsa per grimpeur, quindi, o per chi, comunque, alla salita è capace di dare del tu. Perché sono 4000 i metri di dislivello da digerire e perché, spesso, le pendenze scavallano la doppia cifra. Il percorso sulla carta è di quelli che promettono epica ciclistica, il chilometraggio d’altri tempi – 272 km – porta con sé il ricordo di imprese in bianco e nero. Tuttavia, il rischio per lo spettacolo c’è. Su queste strade così esigenti, infatti, il cannibale Pogacar può fare corsa a parte e, come accade assai di frequente, con gli avversari che finiscono per impostare strategie da secondo posto. A califfi del pedale come van der Poel, Evenepoel, Roglic e il padrone di casa Hirschi, il compito di regalarci una battaglia scongiurando il monologo.
Tornando al percorso movimentato, per usare un eufemismo, che prevede un circuito finale piuttosto lungo e che smette di alternare pendenze ostili solo a sei chilometri dal traguardo, il ricordo, per chi c’era, va dritto al 1995 quando l’iride lo si è assegnato a Duitama in Colombia. La Colombia, terra di scalatori tascabili e alture che si issano ad un passo dal cielo, ha regalato uno dei Mondiali più duri e avvincenti di sempre e l’auspicio è che oggi possa ripetersi qualcosa di paragonabile. Più che una corsa in linea, pareva essere un tappone di quelli che nei grandi giri decidono le sorti della classifica, tanta la quantità di salita che i corridori hanno dovuto spianare. In più, il meteo era beffardamente quello delle peggiori occasioni: acqua a catinelle e nebbia che si appiccica alle ossa. Roba che solo ad attaccare il numero sulla schiena fa di un uomo un eroe. Un dato spiega meglio di mille parole. Al traguardo, quel giorno, giungono solamente venti corridori, probabilmente un record, oltre che una mattanza.
A metà degli anni Novanta il ciclismo verte su dualismi indimenticabili e a Duitama quel che tutti si aspettano è lo scontro frontale tra Miguel Indurain, l’uomo dei tanti Tour de France, e Marco Pantani, l’incarnazione della salita. Senza dimenticare Chiappucci, il Don Chisciotte del pedale, che quell’evento lo ha preparato alla morte. Al Tour, ovviamente vinto dal navarro, lo scontro aveva visto il Pirata aggiudicarsi due tappe di cui quella iconica con arrivo sull’Alpe d’Huez. A Parigi, Indurain arrivò in giallo mentre Pantani in bianco, quale miglior giovane. Tutto faceva pensare che in Colombia se le sarebbero date di santa ragione.
La corazzata spagnola può contare su gregari di extralusso al servizio del capitano. Il selvaggio e compianto Jimenez, uno che sulle rampe più arcigne è imprendibile, Escartin, il diesel, e Olano, il quasi-Indurain. L’Italia non è certo da meno perché, oltre a Pantani, schiera campioni come Bugno, Chiappucci, Gotti e Casagrande. Elenco, il nostro, che a pensare alla situazione odierna mette una certa tristezza. Il circuito ha due peculiarità: si pedala sempre oltre i 2400 metri di quota e in cima ad El Cogollo l’ossigeno è merce rara.
Al penultimo passaggio, Pantani rompe gli indugi, producendosi in una sparata che è marchio di fabbrica. Mani basse sul manubrio, andatura ‘en danseuse’, come la chiamano i francesi, occhi spiritati. Marco fa il vuoto ma alle sue spalle si organizza la Spagna e, ciò che è peggio, gli italiani saltano tutti per aria. Il lavoro di squadra degli iberici consente ad Indurain di rintuzzare lo svantaggio col risultato che in vetta Marco è senza compagni ed accerchiato da casacche giallo-rosse. In discesa, una foratura attarda Indurain ma il lavoro del delfino Olano consente alla Spagna di affrontare il tratto di strada che separa i corridori dall’ultimo passaggio su El Cogollo con una certa serenità numerica. Qui, però, l’imponderabile.
Miguelon, in testa al gruppetto, si impegna in una progressione feroce che porta al limite della sopportazione umana i compagni di fuga, al termine della quale l’Olano che non t’aspetti va a contrattaccare in contropiede, con Marco intento a gestire lo sforzo profuso per restare francobollato al treno spagnolo. Olano, basco e non per nulla, ha ora davanti a sé venti chilometri e l’ultima asperità da affrontare in beata solitudine. Con quanto già speso, ha l’aria dell’impresa impossibile. Dietro di lui, Indurain per ovvie ragioni lascia che sia Pantani a dannarsi nella rincorsa con la sua sagoma gigante che diventa l’ombra dello scricciolo romagnolo, magie della fisica. Marco, le prova davvero tutte ma, alla sua ruota, il navarro d’acciaio non cede un millimetro con Olano che più passano i chilometri e più sembra rinvigorirsi. Il quasi-Indurain che getta via la scomoda etichetta.
Un Mondiale meraviglioso non può che riservare l’ennesima sorpresa. Superato lo striscione dell’ultimo chilometro, la flamme rouge che è spartiacque per la gloria, ad Olano si buca la ruota posteriore e, per lui, fermarsi significherebbe sconfitta certa. La sua bicicletta pare imbizzarrita, sbanda ad ogni pedalata, in un incedere che è quanto di meno stabile esista al mondo. Olano, che quel successo se lo merita tutto, come un esperto marinaio nella tempesta conduce in porto l’immane fatica, nonostante Pantani e un redivivo Gianetti – ricorsi storici, oggi team principal della UAE, la squadra di Pogacar, non si danno per vinti fino alla fine. Nella volata per l’argento a prevalere è il navarro per una doppietta spagnola storica, con Pantani di bronzo.
Morale. Duitama, in tal senso, è un auspicio. Come teorizzava spesso Emiliano Mondonico, allenatore operaio e condottiero calcistico di ineguagliabile garra, nello sport non sempre a vincere è il più forte ma chi ne ha più voglia. L’Italia, forse mai così debole nella sua storia, e il resto delle compagini che non siano quella slovena, pertanto, hanno il dovere di provare ad essere un po’ Olano. Quel campione che con sagacia, gambe e cuore è riuscito a mettere nel sacco gli dèi della disciplina. E chissà che per Pogacar il futuro non sia davvero già scritto.
Buon Mondiale a tutti!