Ciclismo, ‘Braveheart’ Van der Poel conquista l’iride nel giorno della Grande Bellezza- di Teo Parini

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Per distacco, il più bel campionato mondiale di ciclismo su strada a memoria d’uomo. Infatti, sul podio salgono, sfiniti oltre l’immaginabile, i tre pedalatori più iconici delle corse di un giorno, con il gradino più alto che va appannaggio del più forte tra i più forti, Van der Poel, capace di giustiziare, con la ferocia che solo gli Dèi, van Aert, il rivale di sempre, e Pogacar, l’uomo buono per tutte le stagioni.

Il quarto è un altro califfo della bicicletta, Pedersen, tanto per impreziosire ulteriormente un ordine d’arrivo stellare, con Kung quinto e primo degli umani e Bettiol decimo, il migliore degli azzurri. Una giornata leggendaria.

Nella terra di William Wallace, il guardiano di Scozia, l’istantanea imperiale è quella che immortala lo scatto bruciante di van der Poel quando al traguardo mancano ancora ventitré chilometri. Il neerlandese nipote d’arte affronta in testa al plotone dei battistrada l’esiguo segmento di strada con orografia ascendente previsto da un circuito infarcito di curve e controcurve e scalcia così violentemente sui pedali che alla sua ruota l’effetto di cotanta cinetica è quello della bomba atomica: saltano per aria tutti. È un pugnace van Aert l’ultimo avversario a chinare il capo, segnale inequivocabile dell’ennesimo epilogo senza gloria per il campione belga in quest’anno per lui maledetto. In un amen, Mathieu scava il vuoto dietro di sé e manda in sovrimpressione anzitempo i titoli di coda. Game over.

Un passo indietro. Duecentosettanta chilometri di corsa e tremila metri di dislivello sono, insieme, garanzia e sentenza: la selezione nel gruppo sarà naturale, per logorio, e agli outsider nessuna speranza di gloria. Per gli underdog, insomma, ci saranno tempi migliori, ma non qui e non ora. Detto e fatto, così sono i quattro favoriti designati dai bookmakers e da ogni aficionado di buon senso che, in prima persona, se le suonano di santa ragione mentre il resto del mondo del pedale assiste in un misto di ammirazione e impotenza. Zero tattica, zero gregari, zero strategia, zero paure. Botte da orbi, un incontro di pugilato nel quale, per un’infinità di riprese, al tappeto non ci finisce nessuno, come nelle scene più surreali di un film di Stallone. Allo scatto di uno fa seguito l’allungo dell’altro e la replica dell’altro ancora, uno spettacolo – garantito, non è un’iperbole – mai visto. Plastica conferma dell’assioma per il quale sono sempre i corridori a rendere bella (o brutta) una corsa e non viceversa, come vorrebbero farci credere i burattinai del ciclismo.

Come si è detto, alla lunga, il terrificante gancio del knockout tecnico che spegne le lampadine agli avversari lo indovina van der Poel; un momento di inesausta potenza che ricorda con nostalgia, almeno per chi c’era, le sequenze pugilistiche a due mani di Marvin Hagler, il Meraviglioso, le discese a quattro ruote motrici sui nastri ghiacciati di Alberto Tomba, la Bomba, e le sgroppate a testa bassa del compianto Jonah Lomu, l’uomo chiamato rugby. Mathieu, che si alza in piedi sui pedali e sballotta la bicicletta fino a farle sfiorare l’asfalto con il manubrio prima a destra e poi a sinistra, è in quella cerchia di supereroi scolpiti nel granito che si colloca. O bianco o nero, con manifesta intolleranza per i grigi, un antidoto vivente alla banalità.

Infatti, lo sciagurato van der Poel, con la corsa già in ghiaccio che aspetta solo di vederlo tagliare il traguardo in luminescente solitudine, trova il modo di infilarsi in una curva secca verso destra a una velocità non compatibile con le formule che regolano i principi della forza centrifuga, tanto da finire a rovinosamente a terra. A ben pensarci, l’unico modo a sua disposizione per gettare alle ortiche un Mondiale già virtualmente assegnato. Tuttavia, più che un’atroce disdetta è il destino che ha in serbo per questa giornata d’agosto qualcosa di oltremodo speciale. L’epica di uno sport con pochi eguali che esige la sua parte e che racconta la parabola del gladiatore, martoriato nel fisico e pungolato nell’orgoglio, che si rialza dopo una brutta caduta e riprende la battaglia con ancora più vigore di prima. Inconveniente scenografico, con un pizzico di brivido per la schiena, che è l’anticamera di un trionfo fatto di una maglia a brandelli, di ferite sanguinanti e di battiti cardiaci impazziti. Più impavido di Mel Gibson.

Milano-Sanremo, Parigi-Roubaix e Mondiale. Van der Poel, a Glasgow, cala la tripletta mai riuscita prima d’ora a nessun illustre predecessore nella storia del ciclismo e ciò fortifica l’idea della grandezza di un corridore che, tra le tante, esibisce la dote che più di ogni altra definisce etimologicamente il talento: quando conta davvero, a vincere è sempre lui, un cecchino appollaiato al fronte. Mathieu, in tal senso, lo si immagina brandire la matita rossa, sfogliare il calendario delle gare, individuare gli appuntamenti di suo gradimento e cerchiarli accuratamente. Prima di andarseli a prendere con la genia dei predestinati, coloro che caratterizzano un’epoca, e l’arroganza ciclistica di chi, focalizzato sulla vittoria, non teme la sconfitta. Uno di quelli che, se proprio non l’ha inventato, un aspetto caratterizzante della disciplina l’ha saputo elevare su traiettorie inesplorate. Il colpo di cannone che ha nei quadricipiti è ancora materia di studio perché profusione di watt che riscrive la fisica.

Più in generale, il ciclismo vive un periodo storico che in futuro, guardando a ritroso, sarà considerato spartiacque. Questi ragazzi stanno dotando di nuove regole non scritte una disciplina spesso ingessata e le corse di fantasiose formule interpretative. Una freschezza d’intenti che spazza via decenni di attendismo scorbutico e, salvo rare eccezioni, di politiche tattiche sparagnine. Lo schema mentale adottato, paradossalmente ma non troppo, è il più semplice: pancia a terra dal chilometro zero al traguardo, da gennaio a dicembre, senza né calcoli né riserve fino all’ultima goccia di energia, per scoprire se, sotto lo striscione d’arrivo, qualcuno è rimasto attaccato alla ruota. Wallace, proprio a Glasgow, fu catturato, processato e giustiziato. Mathieu van der Poel, al contrario, dalla città simbolo delle Lowlands, il cui nome in gaelico scozzese significa piccola valle verde, ci ricorda con la personalità di un Braveheart dei nostri tempi che non ci sarà un Edoardo I a intralciare i suoi piani. Difficile pensare di fargli cambiare idea ma la certezza è che uomini altrettanto speciali ci proveranno.

Che spettacolo all’orizzonte.

di Teo Parini

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