Fare musica per Antonio Faraò è una missione musicale e persino spirituale: è sulle piazze da quale settimana con “Christmas Time”, un album interpretato con Mario Rosini alla voce e altri pregiati musicisti.
La track list spazia da brani tradizionali in napoletano ai classici anglofoni di respiro internazionale, sino ad omaggi indimenticabili per tutti noi.
Il disco risveglia atmosfere da film newyorkese, viaggiando su note jazz, pop e gospel, che lo rendono adatto a vasti palati.
Ma Antonio Faraò è un pianista jazz tra i più celebri a livello sia mondiale che italiano, quindi appartiene a quelle eccellenze da mettere in risalto, insignite di prestigiosi riconoscimenti internazionali, che ha collaborato con mostri sacri planetari come Joe Lovato e Markus Miller, con i quali ha un rapporto molto diretto e ricco di feeling.
Il 19 gennaio 2025, sarà di scena al Blue Note con tanti ospiti, anche in concomitanza del suo compleanno.
A maggio, invece, aprtirà il suo nuovo tour.
Non va ovviamente identificato “solo” con “Christmas Time”, ma deve essere l’occasione per conoscere un grande pianista che ha composto con tanti altri musicisti prestigiosi, album importanti come “Tributes” ed “Eklektik”, solo per citare i più recenti.
L’intervista.
D. Come è nata la collaborazione con Mario Rosini ed il suo ruolo nel disco.
R. Con Mario ci conosciamo da anni, e ci eravamo sempre riproposti di fare qualche cosa assieme, e diciamo c’è stata l’occasione con grazie ad Azzurra Music, di incidere questo disco dedicato al Natale e quindi l’ho coinvolto in questo progetto.
D. Ci sono delle scelte particolari, come un classico natalizio interamente cantato in napoletano. Come é nata questa scelta?
R. È stata una proposta che mi ha fatto Mario, che aveva già fatto l’arrangiamento di questo brano, “Quanno nascette Ninno”, che fa parte praticamente della tradizione napoletana, io sono intervenuto nella prima parte dell’arragiamento, ma l’ha fatto tutto interamente Mario. Mi è subito piaciuto molto, perché è abbastanza raro sentire un arrangiamento su questo brano nel jazz.
D. Siamo infatti quasi a Natale. È difficile nella sterminata produzione di album di questo tipo, colpire nel segno con qualcosa di nuovo? Quali ingredienti ci vogliono per distinguersi?
R. Io ho cercato di mantenere dei brani tradizionali, senza particolarmente agire sull’arragiamento, poi alcuni brani come “Jingle Bells”, piuttosto che “Quanno nascette ninno”, li ho arrangiati un po’ di più. Jingle Bells era un brano che avevo arrangiato tanto tempo fa un po’ per scherzo. E mi ero detto che un giorno lo avrei registrato per un disco del genere. Ciò che distingue un po’ questo lavoro è che vi sono anche brani un po’ più in chiave pop, oltre a quelli tradizionali. Per esempio quello di Steve Wonder, e lo stesso mio brano, “Christmas Time”, è molto gospel, però è più commerciale, ecco.
D. Quindi possiamo dire che si rivolge alla grande massa e non soltanto un pubblico di nicchia, benché lo stampo sia più jazz… L’album contiene poi degli altri omaggi di grande richiamo, che lo rendono molto speciale…
R. Certo, uno di questi è Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, Natalie Cole, non sono proprio dei tributi, ma sono artisti che io negli anni ho ascoltato fin da piccolo, quindi anche perché i miei genitori erano appassionati di questi generi, quindi diciamo che i Natali passati in famiglia si trascorrevano ascoltando questi grandi artisti.
D. L’album l’ho ascoltato ed è molto bello, e contiene atmosfere molto raffinate che fanno pensare a quelle newyorkesi, essenso per lo più cantato in inglese. Vi sono motivi solo stilistici o anche altre destinazioni di mercato?
R. Diciamo che il jazz in qualche modo è nato in America soprattutto, e poi si è evoluto in altri Paesi come alcuni in Europa e secondo me, e debbo dire che ultimamente il livello è diventato molto alto ovunque. L’inglese è ovviamente una lingua internazionale, quindi i testi e le musiche sono stati scelti proprio per rendere il progetto più appetibile a livello globale.
D. Voce e piano sono particolarmente protagonisti, ma bisogna ricordare anche gli altri musicisti molto importanti. Ce ne vuole parlare un po’ di chi sono e come sono nate le collaborazioni?
R. Si certo, c’è Federico Malaman al basso, e Maxx Furian alla batteria, li conosco da diverso tempo, sono musicisti affermati, anche nell’ambiente pop, e per quanto riguarda il resto dei brani, sono stati eseguiti al basso da Carlo Bavetta che è un giovane talento, che ho coinvolto negli ultimi due anni e in alcuni miei progetti. Vladimir Kostadinovic infine è un batterista, che vive a Vienna, ed è il battersita del trio con il quale suono da un po’ di tempo.
D. Allora adesso immaginiamo che un artista o più artisti si mettono insieme e decidono di fare un album, e ne immaginano delle situazioni perfette nelle quali ascoltarlo. Come e dove immagina un ascolto ideale per questo suo nuovo disco?
R. Prima di tutto sicuramente ascoltarlo. Poi i musicisti li ho scelti io e tipo il discorso con Mario Rosini è che da anni che ci conosciamo… La musica va ascoltata ed assimilata ed il modo migliore per riuscirci è “entrare” in modo naturale nel mood, un ascolto non va mai forzato. È un disco di facile ascolto che va a toccare un pubblico più vasto.
D. L’album è già disponibile da qualche settimana, e nelle recensioni ho letto qualcuno definirlo un “Crapshut” perfettamente riuscito, dopo averne assunto il “rischio”. Vuole commentare questa affermazione?
R. Mhà… In realtà io non vedo un album di Natale come un’azione o una scelta “rischiosa”, anzi. Certo è che bisogna sempre avere chiaro in mente un proprio progetto. Questo progetto era in aria da tanto tempo ma è stato realizzato in pochissimo tempo. Siamo entrati in studio e abbiamo registrato in due giorni. Si tratta tra l’altro di un percorso che hanno fatto tantissimi artisti. Secondo me è una tappa quasi obbligata!
Poi potrei dire che è un album per chi crede nel Natale e nella sua tradizione e nella famiglia, come ci credo io.
D. Allora approfondiremo anche questo! Però adesso mi piacerebbe parlare un po’ anche del resto della sua carriera. Ha ricevuto riconoscimenti prestigiosi come ad esempio il Primo Premio al Martial Solal International Competition di Parigi. Ha un ricordo particolare del suo fondatore che è scomparso proprio in questi giorni?
R. Martial Solal era proprio un marziano per me! Lui rappresentava un must di quelli irraggiungibili. Non ne nasceranno più così. Lui come del resto Roy Haynes, batterista jazz statunitense di fama internazionale e scomparso a sua volta, recentemente, erano quasi della stessa generazione. Per me fu un onore, tra l’atro questo concorso perché lui mi sentì una volta in un concerto, e suonavo con tanti musicisti fra i quali Franco Ambrosetti e Daniel Humair, e me lo propose chiedendomi se mi sarebbe piaciuto partecipare. Io mi iscrissi con entusiamo e fu una settimana bella tosta perché bisognava passare varie selezioni con prove di vario livello. Venni scelto tra più di 100 pianisti, si può immaginare, di tutto il mondo, tra l’altro.
D. Lei infatti è considerato uno dei più importanti pianisti del jazz italiano ed è molto conosciuto sia nel panorama italiano appunto che in quello mondiale, avendo suonato con tante leggende. Il jazz quindi ha davanti a sé ancora un terreno molto fertile?
R. Si, anche se poi ci sono Paesi dove è molto più apprezzato e si ascolta molto di più, come in Francia ed io spesso vengo chiamato a suonare proprio lì. Vi è una cultura diversa debbo dire. Ci sono poi Paesi dove il jazz è più evoluto e più preso in considerazione. Sicuramente adesso si sta evolvendo di più anche in Europa. Non si avverte quasi più questa differenza. Da tanto ci sono anche strutture come i conservatori che insegnano il jazz e anche a me è capitato di condurre dei workshop ad esempio al conservatorio di Amsterdam, ed anche a Rottherdam, quindi posti in Europa, e debbo dire che c’è un grande fermento. L’unica cosa che secondo me rovina un po’, sono un po’ i social che fanno basare talento e celebrità sui like, e sono un’arma a doppio taglio perché oggi come oggi un artista è più considrato per il numero di followers che ha, invece che per la vera consistenza. Questo secondo me è diventato un po’ un degrado per la musica. Da un lato abbiamo una evoluzione e dall’altra abbiamo una perdita di valore. Io ho frequentato molti locali dove andavo ad ascoltare dal vivo i musicisti, quindi la valutazione di un artista si fa soprattutto live e il successo si determinava da quanti dischi vendevi. Adesso questa facilità di apparire è diventato un limite per le vendite, perché è molto più facile comprare i brani sulle piattaforme, invece del disco fisico. La tecnologia ha i suoi pro e contro.
D. Anche Joe Lovano, ricollegandomi ad una delle leggende per citarne una, con le quali lei ha suonato, è un musicista statunitense di origini italiane e che ha riscosso un grandissimo successo: come entraste in contatto?
R. Lo conobbi grazie a Giovanni Tommaso, che tra le altre cose mi aveva chiamato e coinvolto nel suo disco “Giovanni Tommaso Quintet – Secondo Tempo”, uscito per la CAM qualche anno fa, lo conobbi in questa occasione e ci fu subito feeling. E poi io lo coinvolsi nel mio disco “Evan” che poi abbiamo registrato insieme a New York. Tra l’altro lui ora è anche direttore artistico del Bergamo Jazz, e sono stato invitato da lui a suonare a marzo 2025, con il mio Trio, ossia con Ameen Saleem e Jeff Ballard. C’è quindi una gramde stima reciproca che perdura.
D. E questo ha una influenza particolare e a tutto tondo e molto duratura nella sua carriera?
R. Se intende quello con il quale ho inciso “Tributes” si, ed è intanto diciamo uscito per una etichetta storica che è la CRISS CROSS, con John Patitucci e Jeff Ballard, ed è uscito a giugno di quest’anno. In realtà poi io Patitucci lo conosco da anni, e anche in questa occasione ci siamo scelti per fare questo disco insieme, ma non abbiamo mai suonato moltissimo insieme ai live. Il disco è stato registrato dopo aver fatto una prova e anche con lui c’è stato subito un grande feeling che ci portato a trovare conferma della bontà del progetto condiviso. A volte quando parli lo stesso linguaggio, si creano queste situazioni magiche. Non è il mio trio stabile, perché è il trio con il quale ho registrato “Tributes” e con il quale farò il tour in maggio, e non ci sarà con noi Jeff Ballard ma Gene Jackson, un batterista grandioso che per dire ha suonato anche con Herbie Hancock. Il mio trio ufficiale invece è chiaramente con musicisti europei. Questi progetti sono molto di impatto però puoi immaginare tutti gli impegni che hanno loro e incluso me, quindi sono tutti musicisti che suona nel trio è leader di una sua band. È una sorta di “all stars band” anche se è a nome mio.
D. E fare un album come “Tributes” è un po’ come uno scrittore che dice la sua su altri autori, in un certo senso… Su quali aspetti di questi artisti e brani ha voluto mettere l’accento? Ad esempio ci sono virate su melodie brasiliane, ecc ecc… Possiamo definirle poi le sue passioni musicali…
R. Se si riferisce alla track list, i brani si sono una sorta di tributi ma non tutti. Per esempio “Memories of Calvi” è un tributo a Michel Petrucciani e Lockwood e mi ricorda molto quel periodo e anche stilisticamente anche Michèle Didier, quindi l’ho fatto per dedicarlo a loro. “MT” è dedicato a McCoy con il quale ho avuto anche occasione di suonare insieme. Poi c’è “Matrix” di Chick Corea che che ho voluto suonare. E lo stesso “Rigth One” è molto vicino stilisticamente a Corea. Era un progetto che avevo in testa da circa due anni dedicato ad artisti con i quali ho avuto n rapporto umano e musicale molto intenso.
D. E negli album recenti c’è poi “Eklektik”, che è un esempio di crossower musicale di successo. Come è stato lavorare a questo progetto musicale con artisti come Snoop Dogg e Markus Miller, per esempio?
R. Eh! Quello è stato un progetto bello grosso, sul quale c’è stata una pre-produzione durata due anni, poi è stato affinato verso la fine. Mi allacio subito a Markus Miller perché il discorso Snoop Dogg è molto complesso; e a Markus avevo proposto di suonarmi un brano, poi mi ha rimandato la sua elaborazione da ascoltare, e poi mi ha chiesto se mi piacesse o doveva rifarmelo. Lo dico per far capire la grande umiltà dei grandi talenti. C’è poi un attore americano che si chiama Robert Davi che legge la prima parte che ho scritto io del disco e lo racconta un po’, e altri artisti come Manu Katché. È un disco bello vario con diverse influenze, come il jazz-rock, è stato uni dei progetti che ho nel cuore.
D. Tornando adesso a “Christmas Time”, mi diceva prima che il Natale per lei è molto importante…
R. Si per me lo è perché io sono molto legato alla famiglia ed al suo ricordo, così come all’infanzia. Non dimentico i miei genitori, le nostre riunioni famigliari, e sono molto legato alla spiritualità, sono credente e credo in Dio. Fare il musicista è una missione e questi elementi mi ispirano.
D. Le prime date del tour quando saranno ed in quali città e contesti, se teatri, ecc…
R. Per adesso ho concerti sparsi, mentre il tour vero e proprio partirà a maggio ma adesso non ho ancora le date precise. A metà gennaio per esempio sarò a Roma, poi a Salerno, ecc. Il 19 gennaio, sarò di scena al Blue Note di Milano con il mio trio italiano, perché sarà anche il mio compleanno. Suonerò con diversi ospiti a sorpresa, poi sarò a Parigi in febbraio.
Sul mio sito si possono trovare aggiornamenti al link www.antoniofarao.net .
D. Desidera parlarci ancora di qualche cosa?
R. No, direi che abbiamo detto abbastanza (ride).
Monica Mazzei
freelance culturale
TicinoNotizie.it