Adesso i sedicenti addetti ai lavori ci diranno che una Francia così brutta non la si era mai vista. E che l’Italia, pertanto, non è nemmeno stata da meno. Ma noi, che addetti ai lavori non siamo, facciamo fatica a partorire un pensiero lucido a valle di ottanta minuti che solo un palo – cazzo, un palo – ha impedito si trasformassero in una delle imprese sportive più luminescenti della storia azzurra, sport by sport. Partiamo dalla fine. Sul punteggio di tredici punti per parte, l’Italia arrembante come nemmeno nei sogni più ottimistici estirpa il pallone, subendo fallo, ai portatori francesi. Il tempo sul cronometro è colorato di rosso, tempo scaduto. Il che significa una cosa: calcio Italia, se finisce in mezzo ai pali è la vittoria del trofeo Garibaldi, viceversa è pari e patta. Paolo Garbisi, deputato alla trasformazione, pasticcia un po’, c’è tensione, si perde del tempo prezioso. Ancora pochi secondi per calciare, la rincorsa è raffazzonata ma il calcio è di quelli facili. Vola l’ovale, volano le pulsazioni di tutti quanti, dal campo al divano passando per gli spalti.
È fatta, la palla sembra dentro. Sembra, perché sbatte sul palo: partita finita, è pareggio.
La risata amarissima e un po’ isterica di Paolo è una pugnalata al cuore; Menoncello, uno al quale daremmo la figlia per quanto sappia essere meraviglioso, picchia i pugni nell’erba. Un palo. In un amen, dall’impresa più eclatante di sempre al rimpianto più doloroso, forse di sempre. C’è un però. Siamo realisti, avremmo messo la firma per non prendere una scoppola (vi ricordate al mondiale, vero?), figuriamoci per un pareggio. Un risultato stratosferico arrivato nella maniera peggiore, questo è lo sport. Questo è il rugby, sport crudo e crudele, dove quasi sempre vince il più forte. Con quel quasi che, questa volta, ci toglierà il sonno, perché oggi, i più forti, abbiamo dimostrato di essere noi. Artefici di una difesa che non si vedeva dalle barricate di Stalingrado, una cerniera impermeabile che ha finito per mandare ai matti gli avanti francesi, erodendo vigore e certezze. Ciò, con almeno tre prestazioni individuali da Paradiso. Detto di Menoncello, uno che quando avrà smesso e si spera il più tardi possibile ricorderemo come uno dei più forti rugbisti italiani di sempre, commoventi le prove di Brex, placcatore inesausto, e di Zuliani, l’illusionista rubapalloni. Ma è difficile essere severi con qualcuno dei ragazzi di Quesada. Certo, errori di possesso tanti ma in mezzo ad altrettanti cuore e polmoni.
Brutta Francia? Può darsi. Ma a spingerla a commettere una marea di errori inconsueti, per loro, è stata l’Italia, mica la malasorte. Un merito che ci prendiamo tutto. E se la meta italiana è bella come la Gioconda, ma non ce la ruberanno, l’unica messa a referto dai francesi non è che il gentile omaggio di un arbitro che, oltre a vederla solo lui, conferma che, ancora oggi dopo vent’anni di Sei Nazioni, nel dubbio le decisioni puniscono implacabilmente l’Italia. Ma siamo gente di rugby, testa bassa e pochi piagnistei. Se ora siamo incazzati come bestie, al risveglio ci renderemo conto di aver dato di noi una versione che ci deve riempire d’orgoglio. Sempre per non vendere tappeti, avvisiamo che non sarà sempre così. La Francia costretta a giocare per un tempo con un uomo in meno – decisione sacrosanta, peraltro – è un bel vantaggio più che una consuetudine e Galles ma soprattutto Scozia hanno le qualità e la competenza per mettere a nudo quelle che restano le nostre endemiche difficoltà. Insomma, tra quindici giorni saremo chiamati alla stessa sofferenza odierna e, si sa, la prova del nove di tommasiana definizione spesso ha finito per respingere i sogni nostrani. Cercheremo di sfatare anche questo tabù.
In ogni caso, ci sarà tempo per preparare gli ultimi due scontri. Adesso, però, è l’ora della festa, perché i ragazzi si meritano una festa che, in parte, li possa ripagare da anni di pane durissimo e critiche feroci, solitamente fuori luogo. Siamo sinceri, quel palo non lo si dimenticherà in fretta. Tuttavia, proprio da quel palo, si rientra in Italia con una certezza in più: se stuzzicati, magari dalla spocchia transalpina, abbiamo i cromosomi adatti per difendere il nostro fortino fino alla morte. Proprio come dice il nostro inno, intonato con le lacrime agli occhi da Cannone a ricordarci due cose. La meraviglia del rugby, l’orgoglio di essere italiani.
Grazie di cuore, ragazzi.