Arte e fascismo: Sgarbi e Borgonovo alla festa di Lealtà Azione a Pontenuovo

Ecco cos'ha detto il celebre critico

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Al di là delle polemiche storicamente legate a tutti, nessuno escluso, gli eventi organizzati da Lealtà Azione, sabato pomeriggio all’oratorio di Pontenuovo si è svolta una conferenza di indubbio richiamo con Vittorio Sgarbi e Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità.

Arte e fascismo è il titolo del saggio edito nei mesi scorsi dalla Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi (presente ieri a Magenta), che ha consentito al talento affabulatorio smisurato del celebre fratello di affrontare, col rigore dello studioso capace di tenere lo spettatore inchiodato alla sedia (come negli spettacoli teatrali su Caravaggio e Raffaello, per chi come noi ha avuto la fortuna di assistervi) quando si parla di pittura, scultura, insomma di arte, un tema naturaliter controverso.

A Borgonovo, già in passato ospite di LA, è bastato aprire ironizzando su chi vorrebbe decostruire, demolire, negare quanto venne edificato durante il ventennio mussoliniano (“vogliamo forse abbattere la Stazione Centrale di Milano?”): la palla è passata subito a Sgarbi, il quale ha evidenziato come lo straordinario fervore artistico e culturale di quei decenni sia avvenuto spesso NONOSTANTE e INDIPENTEMENTE dalla volontà del regime. Mario Sironi, Depero, il premio Nobel Salvatore Quasimodo, il futurismo: artisti e movimenti che ebbero, durante l’epoca mussoliniana, piena libertà di campo e azione.

Detto da chi, come Sgarbi, liberale e libertario, ha tutti i potenziali crismi dell’antifascista.

Premesso che nei secoli qualunque tipo di Governo, sia dall’età romana sia al Secondo dopoguerra ha, in maniera più o meno esplicita, fatto uso dell’arte come strumento di propaganda, il Fascismo da questo non si discosta. Ma a differenza di altri regimi – a cominciare da quello sovietico – il “culto” e l’attenzione per l’arte, anzi per le arti, durante il regime mussoliniano fu molto più libero e libertario di quanto si possa immaginare. Quindi, se si dà una connotazione negativa al “Fascismo”, allora possiamo affermare che tale esso non fu in questo campo. E dunque non vi fu una ingerenza dispotica nell’arte del suo tempo. Ma noi, oggi, a distanza di un secolo lo guardiamo con occhio lucido e smaliziato, privo di pregiudizi ideologici.

Se è vero che il Duce ordinò e fece stabilire una sorta di “decalogo” al quale l’arte dei suoi anni avrebbe dovuto conformarsi – ricordiamo le “linee guida” tracciate da un uomo geniale e da un grande artista quale fu Ardengo Soffici – è altrettanto vero che nella realtà dei fatti l’arte “fascista” si dimostrò essere sempre estremamente libera e variegata, andando da quella che si rifaceva alla “romanità imperiale” alle più estreme conseguenze dell’aeropittura sino a un avanzato modernismo.

Il Fascismo non distrusse mai le opere d’arte come purtroppo avvenne nella Germania hitleriana, dove molte di esse considerate “degenerate” vennero arse sul rogo insieme a libri e altro che non si confaceva all’ideologia nazionalsocialista. Sgarbi insomma dimostra come nel Fascismo vi fu arte, non solo, ma che esso fu forse l’ultimo tentativo di restaurare un’arte, soprattutto pittorica e scultorea, in senso tradizionale che si rifacesse al nostro più aureo passato rinascimentale, al nostro Quattrocento, con il Realismo magico e con il Gruppo Novecento di Margherita Sarfatti, l’intellettuale brillante e lungimirante che andò a limitare la fuga materialista del Futurismo con il recupero degli ideali classici quattrocenteschi italiani. Ebbere libertà di azione anche artisti ebrei, che tuttavia dovettero riparare altrove dopo le leggi razziali del 1938.

Nel corso del suo interveto Sgarbi ha fatto riferimento alla grande mostra “Arte e Fascismo” al Mart di Rovereto, aperta fino a domenica 29 settembre.

Un’importante esposizione che dimostra chiaramente come “accanto al persistere di ricerche di avanguardia legate al Futurismo, si delinea una linea di “ritorno all’ordine”, che confluisce nel movimento del Novecento italiano, creato da Margherita Sarfatti. Il ritorno all’antico, funzionale all’affermazione della tradizione italiana, trova varie declinazioni, dal rinnovato sguardo ai maestri antichi dei protagonisti di Novecento fino a più radicali affermazioni di un’arte di propaganda volta alla costruzione del consenso.

Uno straordinario apparato di premi, esposizioni pubbliche, convenzioni e mostre permette al regime di intercettare gli artisti più significativi, di sostenerne l’opera e di inglobarli nel più ampio progetto di promozione generale. Attraverso la partecipazione a biennali, quadriennali, mostre sindacali, a concorsi e a commissioni pubbliche gli artisti danno voce all’ideologia, ai temi e ai miti del fascismo.

Lo stesso rapporto tra gli artisti e il potere non è definito né unico. Accanto a figure dichiaratamente fasciste, convinte sostenitrici del Duce come Depero e Sironi, si muovono artisti meno ingaggiati, più o meno distanti ma comunque presenti nel ricco panorama italiano.

Allo stesso tempo, i nuovi luoghi del potere divengono strumento di affermazione attraverso un linguaggio aperto tanto al classicismo quanto al razionalismo, che coinvolge architettura, scultura e arte murale, rinata sotto l’impulso di una rinnovata volontà celebrativa.

Tra pittura, scultura, documenti e materiali d’archivio, il percorso espositivo si snoda tra 400 opere di artisti e architetti come Mario Sironi, Carlo Carrà, Adolfo Wildt, Arturo Martini, Marino Marini, Massimo Campigli, Achille Funi, Fortunato Depero, Tullio Crali, Thayaht, Renato Bertelli, Renato Guttuso. Provenienti da collezioni pubbliche e private le opere dialogano con alcuni dei grandi capolavori del Mart e con numerosi materiali provenienti dai fondi dell’Archivio del ’900”.

La conferenza di ieri, purtroppo subissata dai consueti strali che impediscono di approfondire qualsiasi tentativo di elaborazione del pensiero, dimostra in pratica che “il Fascismo come evento storico è concluso e storicizzato da moltissimi anni, un capitolo concluso di un libro ormai riposto negli scaffali, tanto che è inutile paventarlo sempre a sproposito anche nel campo artistico, laddove gli andrebbe riconosciuto l’indubbio merito, invece, di aver protetto, curato e favorito l’arte, la nostra arte italica, i nostri oltre duemila anni di bellezza senza pari, come nessun altro ha fatto dopo di lui”.

F.P.

-foto tratte dalla pagina Facebook Federazione-

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