Era una Italia che sapeva ridere quella dove Alvaro Vitali recitava la sempiterna parte del Pierino. Una mascherina gregaria delle maschere della commedia dell’arte, quella commedia entrata nel cinema e che per due decenni ha prodotto decine e decine di pellicole tra i quali film strepitosi.
D’un volto asimmetrico, il naso spiovente accentuava un ghigno satiresco e per nulla crudele. Federico Fellini, il grande nonno, padre e figlio della commedia dell’arte, dove la comicità ferisce al sangue, all’anima, lo vide e lo ingaggiò, Satiricon, batteva l’anno del Signore 1969.
D’altronde il Maestro riminese l’aveva già incontrato, quel volto, nelle vignette che lui stesso aveva disegnato per la fumettistica del Marc’Aurelio, 1939, XVII E.F. Ingaggia Alvaro Vitali e da lì parte quel ventennio di fortuna per l’attore cristallizzato in un unico ruolo, il Pierino. Archetipo, per usare un accademismo, dell’ignorantone della classe, del paese e quindi capro espiatorio d’ogni ribalderia davvero a buon mercato. Dialoghi e scene a doppio senso, tutti allusivi satirescamente la sessualità (Giovanni Boccaccio), ingenue furfanterie da smargiasso (Carlo Goldoni), grottesche filastrocche in rima (Cecco Angiolieri, Gioacchino Belli, Olindo Guerrini); una maschera, la sua, che ben si prestava alle necessità del copione.
Era, in quei decenni dai Sessanta alla metà degli Ottanta, che già un titolo: Due cuori e una cappella, faceva ridere perché già affrescava ogni trama e ordito. Una comicità scurrile, purtuttavia giocosa che in ogni scena richiamava i fescennini romani che venivano recitati nelle feste popolari. L’attore Alvaro Vitali si è ritagliato questo personaggio. Cristallizzandosi. Poi il tempo declina ed escono nuove letture e quel suo piccolo astro è tramontato in un volto pienamente tragico, pre funerario. È stato, sotto la direzione di alcuni grandissimi registi, il Pierino di un’Italia libera dalla soperchieria del politicamente corretto, da questo sudario proibizionista di stampo puritano, da un intellettualismo autoreferenziale e dottrinario, vuoto di autenticità.
Emanuele Torreggiani
Alvaro Vitali ci ha lasciato. Romano di Trastevere, elettricista, attore. Uomo del popolo. Aveva settantacinque anni ma da qualche tempo non è che se la passasse un granché bene. In tutti i sensi. Famiglia di comunisti, la sua, tanto che lo diventò lui stesso nella maniera più autentica, quella di chi nel partito, come si diceva una volta, ripone speranze e non interessi, tanto da finire alla svelta per soffrirne perché disilluso. Attacchinaggio dei manifesti, tra un turno di lavoro e l’altro, e annunci dei comizi con il megafono legato sulla capote dell’auto, come si usava all’epoca, erano la sua cifra stilistica. Quella della politica della gente, tra la gente, per la gente.
Poi l’incontro, anche se di rimbalzo per via di una conoscenza in comune, con Federico Fellini. Lui, peraltro, manco sapeva chi fosse ma il regista proprio per quel film cercava una comparsa, un ragazzino possibilmente minuto come lui. Si presentò. Reciterà in tutta la sua carriera in più di centocinquanta film, fino al tramonto di quegli spaccati d’Italia che erano le commedie sexy, che ebbero il merito di raccontare il paese nel boom economico con le sue intrinseche contraddizioni sociali ma senza farsi mancare un sorriso, adottando un linguaggio profondo che fosse quello della gente comune.
Non quello degli snob che da sempre albergano nell’universo impomatato delle ZTL, con la puzza sotto al naso e l’aria semicolta di chi, alla comicità genuina e senza filtri di uno come lui, ha sempre preferito vantare la conoscenza di pallosissime pellicole buone per dibattiti in stile corazzata Kotiomkin, quella di Fantozzi. Vitali, insomma, per la sedicente élite culturale era roba da poveracci.
Non è un caso, allora, che la sinistra benpensante lo schifasse. Alvaro, infatti, raccontava spesso di come il PCI di quel tempo non lo avesse mai chiamato nemmeno per una comparsata ufficiale alla Festa dell’Unità benché fosse tra gli attori più noti del panorama italiano. Feste nominalmente popolari dove le umili origini non è che fossero sempre un plus. Ma lui, che popolare lo era davvero, ci andava lo stesso, carico di spirito pionieristico come l’ultimo dei militanti. Perché questo era, un militante tradito con una ferita mai rimarginata.
Ci tornava ogni volta sull’argomento perché era un puro e così, all’alba dei settantacinque anni, con una pensione insufficiente, gli acciacchi, cancellato dal mondo del cinema perché Pierino è sempre Pierino per quelli pieni di lauree ma poca elasticità, Alvaro, con la consueta lucida schiettezza, si divertiva a bacchettare i nuovi araldi della sinistra italiana.
Quella delle Schlein e dei Fratoianni, perché, diceva, questi signori “se buttano quasi de là a cercà voti”. E a lui questo voltagabbanismo proprio non andava giù. Gli rimproveravano pure di aver sperperato i soldi. Loro, da che pulpito. Automobili e donne, le sue passioni, ma sarà mica diventato un reato.
Due settimane fa, infine, la broncopolmonite, il ricovero in ospedale, la situazione che non migliora. Poi le dimissioni volontarie. Disse una volta: “quando tornerà la vera sinistra, tornerò al seggio”. Nel frattempo, della sinistra, ovviamente, nemmeno l’ombra con Alvaro che se n’è andato per sempre. Fa’ buon viaggio.
Teo Parini