Alberto Contador, che si e ci batteva (forte) il cuore

Omaggio di Teo Parini per il compleanno del campione

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Quando si batteva il cuore, affaticato da ore di battaglia sull’asfalto, con il pugno della mano destra, per poi mimare un colpo di pistola che punta dritto all’orizzonte, significava due cose precise. La prima, forse la meno interessante, che Alberto Contador aveva appena aggiunto un successo al suo palmares già debordante di trionfi. La seconda, che al contrario è il motivo per il quale il ciclismo è proprio il ciclismo e Alberto sarà venerato nei secoli dai suoi aficionados, è che a quel trionfo era giunto seguendo la strada con meno certezze, la più impervia, quella della fantasia e del coraggio. La sua, insomma.

Perché se c’è un aspetto caratterizzante il popolo che vive a pane e pedivelle è proprio quello che sancisce la schiacciante supremazia del ‘come’ sul ‘quanto’. Le vittorie, con buona pace dei Boniperti del mondo, non sono mai tutte uguali, oltre a non essere l’unica cosa che importa, e Albertino ha fatto di questo dogma la sua indelebile cifra stilistica. Albertino, allora, è stato un calcio nel culo alla volontà di fare del ciclismo una scienza esatta, il granello di sabbia che inceppa il meccanismo preconfezionato, la ragionevole consapevolezza che, nella vita come nello sport, può sempre accadere qualcosa che ti coglie con la guardia abbassata.

Ha vinto tutto ciò che un grimpeur di razza potesse vincere, collezionando in serie le maglie iconiche dei grandi giri. Senza distinzioni, Parigi, Milano e Madrid gli hanno tributato il gradino più alto dei rispettivi podi facendone uno dei più grandi cacciatori di corse a tappe di ogni epoca. Ma, appunto, il vuoto che ha fatto seguito al suo ritiro non è minimamente legato a quello. La storia del ciclismo è piena di campioni dalla bacheca zeppa di coppe, un po’ meno di quelli che, se proprio non l’hanno inventata, hanno stravolto in meglio il modo di interpretare la disciplina che fa della fatica qualcosa di epico.

Alberto, in tal senso, è il Tomba dello sci, il Bernardi del volley, il McEnroe del tennis o il Carter del rugby. Gente speciale che ha ingigantito lo sport più di quanto lo sport abbia ingigantito loro. Dopo una prima parte di carriera da invincibile, è la seconda, meno vittoriosa ma se possibile ancor più cavalleresca, che nel giorno del suo compleanno abbiamo voglia di ricordare. Quella di un campione che, senza più nulla da dimostrare a sé stesso, ha scelto di dare ai tifosi qualcosa di memorabile. Meno testa, molte meno gambe, elevazione del cuore alla potenza enne. Come a Fuente Dé. La Vuelta del 2012, quella che Joaquim Rodriguez pensava di aver messo in ghiaccio. Ma Alberto, in quel giorno di gloria, fu di altro avviso e, attaccando al chilometro zero senza nessun senso ciclistico in un una tappa di pianura, ribaltò le sorti della corsa di tre settimane arrivando in roja a Madrid.

Come in cima all’Angliru, nel pomeriggio che ha fermato le lancette del ciclismo, proprio perché teatro dell’ultima danza in salita del Pistolero. Si sa, lo sport scrive spesso pagine meravigliose ma in quella circostanza lo sceneggiatore riuscì a superare sé stesso. Il 2017, infatti, è ai titoli di coda al pari della carriera di Contador alle prese con le ultime giornate di corsa prima della pensione. Quel che si ammira, pertanto, è un lungo abbraccio per le strade della sua Spagna. Ma in cima al Mostro, gli spagnoli lo chiamano così, vuole sparare l’ultimo proiettile. L’emblema di eleganza e bellezza ciclistica che si accartoccia sul manubrio, l’en danseuse aggraziato che lo ha reso ballerino classico per una vita intera che diventa una marcia scomposta e disperata, il linguaggio del corpo che, anziché sicurezza e superiorità, trasmette il senso di un dolore immane. Ma il cuore no, è quello dei giorni belli.
L’Angliru non è roba da esseri umani e percorrerlo in bicicletta rasenta la follia, il che ci ricorda perché i ciclisti, a tutti i livelli, sono persone un po’ speciali. Non appena l’orografia si fa ostile, Alberto indurisce il rapporto e inizia a scalciare forte sui pedali in una lunga via crucis che milioni di spettatori vivono con la medesima apnea del protagonista. A bordo strada, invece, piangono tutti e non è un’iperbole. Passa Alberto e scendono lacrime. La flamme rouge che, quale giudice supremo, fa da preludio agli ultimi mille metri di una cavalcata lunga una decade, ricorda in maniera tangibile che un giorno diverso sta per compiersi e che l’ultimo pugno sul cuore, quello assestato da lì a poco dal Pistolero nella nebbia di uno degli angoli più disagevoli di mondo, sta per mandare in onda i titoli coda. Più che una vittoria, il senso di appartenenza, l’identità. La nostra.
Lieto fine di una storia d’amore che ci ha visto crescere, ragion per cui non lo ringraziaremo mai abbastanza. Buon compleanno, Albertino. Sparami addosso.

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