A quest’ora cominciavamo a sorseggiare cocktail e sogni al Room di Giovanni Filippini e Giulia Galeotti. E il mondo, magicamente, ci faceva meno schifo

Con Maurizio Morris Martignon, degno erede, era nato il miglior bar nella e della storia di Magenta

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“L’Eligio del Blue. Dunque, via IV Giugno angolo via Mazenta. Blue Harmony, bar. Anni Novanta ed i primi del nuovo millennio. Si può dire che la mattina, quando la signora Luciana serviva al banco le colazioni con il marito l’Eligio, appunto, noi lo si frequentasse appena. Purtuttavia è accaduto in alcune occasioni per il fatto, semplicissimo, che avevamo fatto notte lì dentro. Era accaduto in un gennaio di nebbia.

Ci alziamo di malavoglia, però. Adriano sta sulla porta, maniche di camicia rimboccate agli avambracci e si vede che ha in mente solo il letto quando, quando dal fondo della via IV Giugno si sente il frastuono da tosaerba di un sei cilindri raffreddato ad aria. La vettura si ferma lato via Mazenta. Esce un uomo, circa uno e settanta, biondo rado, tutto in bianco, giacca, calzoni, camicia, cravatta, sciarpa, scarpe e cintura, candido come la neve. Parla con Adriano che lo guarda. Adri entra e riordinando le maniche della camicia dice che ha capito, che non si esce più, e dice che il fenomeno deve essere uno dei vostri. Il fenomeno se ne sta lì in mezzo alla nebbia e accende una Marlboro. Poi entra, e arraffa il Cardinal Mendoza ordinato per la via. Alla mattina entra l’Eligio e non dice una parola. Ce ne stavamo al bivacco sui divanetti della sala dei morosi”.

Emanuele Torreggiani, oltre ad essere ed essere stato il Miglior Fabbro della scrittura nell’Est Ticino (assieme a Luciano Prada da Corbetta), è stato, tra le tante altre, uomo da e di bancone. Non appaia casuale l’incipit che Emanuele dedicò al leggendario Blue Harmony, intramontabile e intramontato bar degli anni Ottanta e Novanta, appostato a poche decine di metri da quell’antro inarrivabile, di costrutto architettonico e seduzioni enoiche, che il Room di via IV Giugno, per opera merito di Giovanni Filippini, architetto, e Giulia Galeotti, virtuosa Nostra Signora del bere miscelato, ha rappresentato per undici anni. Dal 2013 a ieri l’altro, quando il Room ha mestamente abbassato la saracinesca per sempre. Giulia aveva smesso di deliziare noi, impenitenti e appassionati anfitrioni del Room, soprattutto nelle serate più eccitanti, ovviamente e soprattutto il lunedì, da tempo; le era subentrato, magno cum gaudio di noi etilisti, e con grande passione, Maurizio ‘Morris’ Martignon, riuscito nella quasi proibitiva impresa di non sfigurare al cospetto di colei la quale, semplicemente, è stata la più grande barman di Magenta, al pari del primo ed imperituro, indimenticabile, Giuseppe Pino Donatiello, che nel 1981 con l’Antony Cocktail Bar imprimette la prima, vera svolta etilica a Magenta. Il Room, oltre ai tanti altri, vantava anche un primato pionieristico: è stato il locale dalla cura grafica, estetica e dalla comunicazione visiva, decisamente dieci passi avanti a tutti gli altri. Cominciavamo attorno all’ora di uscita di questo pezzo: le 22, 22.30. Ad libitum.

Eh già, il Pino.. Una sorta di grande papà, sorridente e confessore, di tutti noi, irregolari da bancone dacché irregolari (dapprima) nella vita, sempre troppo indaffarati per lavorare (seriamente), copyright del nunc et semper Emanuele Torre.

Al Room abbiamo vissuto una stagione epica ed irripetibile, anagrafica ed estetica. Abbiamo trapiantato nel cuore di Magenta l’esprit di Papa Hemingway, che una sulfurea notte del giugno 2021 onorammo al Floridita di L’Avana ingollando 10 Daiquire Rebelede (verso l’ottavo la statua di Papa, assisa come un trono al lato del bancone d’elegante legno caraibico del locale icona in tutto il mondo, prese a parlarci):
“Non c’è mai stato un grande bar senza un grande barman.”

“Il bar era come un porto sicuro, un luogo dove il mondo esterno non poteva disturbarti.”

“I banconi dei bar sono i luoghi dove si possono ascoltare storie migliori di quelle che potresti mai scrivere.”

“In un bar, come nella vita, devi sapere quando andare via.”

Tutto accaduto, tutto vero.

Ernest Hemingway e i bar dell’Avana: Il Floridita e la Bodeguita del Medio

Quando Ernest Hemingway si stabilì a L’Avana negli anni ’30, trovò nella città non solo una casa, ma anche una fonte inesauribile di ispirazione. La sua vita a Cuba era un mix di scrittura, pesca d’altura e serate nei bar che avrebbero lasciato un segno indelebile nella sua leggenda. Tra tutti i luoghi che frequentava, due divennero i suoi santuari: il Floridita e la Bodeguita del Medio.

Il Floridita: “La culla del Daiquiri”
Situato nel cuore dell’Avana Vecchia, il Floridita divenne presto il bar preferito di Hemingway. Qui, sotto i lampadari in stile coloniale e circondato da un’atmosfera elegante, l’autore trovò conforto e creatività. Fu in questo locale che nacque il leggendario *Daiquiri Hemingway*, una variante del cocktail classico, più secca e forte, creata appositamente per lui. Hemingway amava ordinare il suo drink “con poco zucchero” e spesso raddoppiava le dosi di rum.

Un’iconica frase attribuita a lui riassume il suo amore per questi due bar:
“My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita.”

Al Floridita, Hemingway non era solo un cliente, ma una presenza fissa. Il suo posto preferito era all’angolo del bancone, dove poteva osservare le persone entrare e uscire, raccogliendo frammenti di conversazioni e storie. Ancora oggi, una statua di bronzo a grandezza naturale lo ritrae appoggiato al bancone, come se stesse aspettando il prossimo Daiquiri.

La Bodeguita del Medio: Il tempio del Mojito

Se il Floridita era il regno del Daiquiri, la Bodeguita del Medio era il santuario del Mojito. Questo piccolo locale, situato in una stretta via dell’Avana, offriva un’atmosfera più rustica e informale, perfetta per Hemingway. Qui, tra le pareti coperte di graffiti e le foto di visitatori famosi, Hemingway si lasciava andare alla semplicità della vita cubana.

Il Mojito, un mix di rum, zucchero, lime, menta e soda, era il suo drink preferito in questo bar. Si dice che spesso lo accompagnasse con piatti della cucina locale, godendosi la musica dal vivo e conversando con i residenti.

L’Avana come musa

I bar dell’Avana non erano solo luoghi di svago per Hemingway, ma spazi che alimentavano la sua creatività. Si dice che molte pagine di *Il vecchio e il mare* siano nate durante le sue giornate a Cuba, ispirate dalla vita dei pescatori e dalle sue avventure in mare.

Oggi, sia il Floridita che la Bodeguita del Medio sono meta di pellegrinaggio per i fan di Hemingway, simboli immortali di un’epoca in cui il genio letterario e la cultura cubana si intrecciavano. Hemingway non viveva i bar come semplici luoghi di ritrovo, ma come teatri della vita, dove ogni sorso di rum raccontava una storia e ogni serata lasciava un segno indelebile nella sua anima e nelle sue opere.

Traslate Avana con Magenta, Floridita e Bodeguita con Room, ed avrete esattamente resa, in plastica perfezione, la vicenda umana, etilica e barricadera che abbiamo vissuto al Room di Giovanni, Giulia e Maurizio. L’unico cocktail bar con una ricetta esclusiva dedicata al filosofo Julius Evola
, dove il bon vivant abbiatense Corrado Re passava a mezzanotte per ritirare un Moscow Mule da asporto, da sorseggiare nel suo giardino di Cascinazza, dove Maurizio seppe riprodurre un Daiquiri Rebelde prossimo alla perfezione, dove una notte rimanemmo a discutere di alcoli e sogni con Giulia Galeotti fino all’albeggiare estivo delle 6.30, dove il duca Del Gobbo entrò con tanto di bicicletta e bandana gialla in stile Mirko Oro-Little Steven, dove una notte rischiammo di incendiare i gingilli del bancone con un’improvvida e incontrollata fiammata, dove parcheggiavamo in perenne divieto di sosta senza mai essere multati (un sincero grazie alla forze dell’ordine), dove c’abbagliava la beltà delle cosce di quella ragazza lì, del sorriso dell’archeologa, la magentina più bella degli ultimi decenni, dove scoprimmo miscele alcoliche, amari, Gin, whisky, sour, Mezcal, assenzi, malti scozzesi ed imperiali nel senso del Giappone, dove… Basta. Rimane tutto disordinatamente relegato nelle memorie di tutti noi. Non c’è alcuna speranza di redenzione dal comune senso di magone che c’ha preso tutti, appresa la dolorosa notizia dalla bacheca del locale. Perché, molto semplicemente, un locale come il Room, a Magenta, non c’era mai stato e non ci sarà mai più. Ci sarà soltanto rimpianto, per i cocktail (e gli anni) dissolti come sogni nella nebbia, di rock’n roll ma non solo, per le occasioni colte e quelle perse, per le parole spese e quelle rimaste strozzate. Perché fuori dal bar c’è sempre gente banale e triste, rimasta indietro di qaualche drink. Perché al bancone del Room ci sembrava che il mondo, là fuori, facesse meno schifo. Forse era soltanto un’illusione, una pretesa riscrizione del reale. Ma noi c’abbiamo creduto, eccome se ci abbiamo creduto. Addio Gio, Giulia, Maurizio. Addio, solitari avventori d’una sera o una notte. Sappianmo soltanto che senza di voi le nostre vite sarebbero state ancora più misere.

Vi capiremo davvero per bene soltanto adesso, che non ci sarete più. Come accade per tutte le cose che distrattamente ci accadono, nella vita.

“Io sono impastato di Langa; le vigne, le colture, i gerbidi, i rittami, i noccioleti, la terra aspra e faticata, le case aggrumate sulla collina, il cimitero frammezzo alle vigne, colmo di ricordi e talvolta anche di sole; sono la mia vita, e non c’è altra terra al mondo che mi parli contemporaneamente e delle ricordanze e del desiderio di lasciare un segno, anche tenue, accanto a quelli di coloro che mi hanno preceduto; né vi è altra terra che mi conforti, negli aspri momenti che la vita elargisce quotidianamente”.
Riccardo Riccardi, conte di Santa Maria di Mongrando

«Ecco, ora svaniscono / I volti e i luoghi, con quella parte di noi che, come poteva, li amava, / Per ritrovarsi, trasfigurati, in un’altra trama»
T.S. Eliot

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