Un William Wallace più gentile e posato: diciamo addio (e grazie infinite) a sir Andy Murray

Elogio del grande tennista classe 1987

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I britannici, anche se lui si sente scozzese fino al midollo a costo di affrontare l’argomento a muso duro, lo aspettavano dal lontano 1936 quando Fred Parry, quello delle celebri polo, vinse per la terza e ultima volta il torneo di Wimbledon. La difficoltà del tennis britannico, appunto, di partorire un grande campione cominciava ad assumere connotati financo contrari alla statistica, che è disciplina matematica ma ha un modo tutto particolare per dimostrarlo. Ci aveva provato Tim Henman, ribattezzato Timbledon dai giornalisti locali, con il suo gioco d’antan tanto delizioso ma troppo leggero per fare male al Pete Sampras semi-invincibile che puntualmente finiva per spegnere il sogno patriottico di una nazione intera. Nel 1987, però, a Dunblane, piccolo paese della Scozia, nasceva tale Andy Murray. Ancora non lo si sapeva, ma la svolta stava gettando le sue fondamenta.

Riccioluto e poco incline alla baldoria, la vita lo costrinse ben presto a fare i conti con le peggiori disgrazie, perché nella Primary School cittadina, la sua, un balordo armato fino ai denti entra con le peggiori intenzioni possibili e fa fuoco a casaccio su bambini e insegnanti. Thomas Watt Hamilton, il suo nome, uccide sedici alunni tra i cinque e i sei anni e la loro maestra, prima di spararsi a sua volta. Quella mattina, in quella scuola, uno dei sopravvissuti è proprio Andy, quello mezzo taciturno con gli occhi intelligenti e la velocità di pensiero. C’è anche suo fratello, Jamie, dal quale presto dovrà separarsi perché destinato dall’onnipresente mamma a studiare tennis a Cambridge. A separarsi, inoltre, sono anche i suoi genitori e la somma dei fatti, tutti accomunati dall’essere poco auspicabili soprattutto per un bambino, è fonte di problemi per Andy che sceglie anch’esso di votarsi al tennis quale stratagemma di sopravvivenza.

Nella sfortuna, una scoperta. Madre Natura, infatti, lo ha donato di una forma di talento purissima e con pochissimi eguali e non serviva essere Nick Bollettieri, già in quegli esordi, per intuire in lui potenzialità epocali. E pensare che inizialmente quello bravo avrebbe dovuto essere il fratello che, comunque, troverà il modo di fare del tennis una professione benché fosse infinitamente meno dotato di Andy. Classe 1997, quella di Djokovic e che segue di un solo anno quella di Nadal, su di lui calano come una mannaia le aspettative di una nazione che, come detto, da una vita vorrebbe dismettere i panni della Cenerentola, stufa, così com’è, di vedere vincere sempre gli altri. C’è solo un problema, la Triade.
Pensare di primeggiare nell’epoca dei tre tennisti più vincenti di sempre rasenta la follia ma c’è una cosa tutt’altro che banale che fa ben sperare.

Dei tre dioscuri – Roger, Rafa e Nole, ovviamente – uno è depositario del tennis che non è tennis perché proveniente da qualche pianeta sconosciuto e superiore, quindi non fa testo, ma gli altri due, in quanto a competenza tennistica, stanno decisamente dietro di lui. Ora, che giocare meglio non significhi nulla in termini di risultati è segreto di Pulcinella. Tuttavia, è altresì veritiero che saper fare con naturalezza più cose dell’avversario, si chiama talento, è un plus che può essere sfruttato con intelligenza. E se per instaurare una tirannia servono mille altre concomitanze, ed Andy mancava in alcune di queste, per fare della Triade un Quartetto, parafrasando Gianni Clerici, le frecce nella sua faretra sono geneticamente sufficienti. Insomma, Murray in linea potenziale sarebbe potuto diventare ciò che i sudditi di Sua Maestà andavano cercando. Potenzialità che, con lavoro e abnegazione, diventa realtà, a valle di un inseguimento caparbio e virtuoso.


Andy, quando conta, finisce sempre per cedere il passo e la sconfitta sul Centrale di Wimbledon persa contro Federer pare gettarlo nello sconforto. “Non lo vincerò mai”, ebbe modo di dire a valle dell’ultimo punto di una partita che avrebbe potuto fare sfracelli nella sua psiche.
Roger Federer, in quello stesso momento e davanti agli occhi di mezzo mondo ci tenne a smentirlo e non per mera circostanza. Il Re sapeva fin troppo bene che per il ragazzo di Dunblane il momento sarebbe arrivato. “Lo vincerai”, gli disse. Murray farà anche di meglio, perché la bellezza del suo tennis, un misto di romanticismo e modernità, stava scritto negli astri che un giorno o l’altro lo avrebbe reso sportivamente immortale. Così, di Wimbledon ne vincerà due e sullo stesso campo centrale, che è gloria che trasuda da ogni filo d’erba, si aggiudicherà pure il torneo olimpico demolendo, nella più classica delle rivincite, proprio Federer. Le vittorie Slam, alla fine, saranno tre, grazie agli US Open nei quali – l’anno è il 2012, lo spartiacque – spezzava l’incantesimo delle troppe finali perse, e due le medaglie d’oro alle Olimpiadi. Ciò, perché dopo Londra si regalò pure il bis a Rio, primo tennista di sempre a fare doppietta consecutiva e su due superfici differenti. A certificarne la grandezza, ammesso ce ne fosse davvero bisogno, nel 2016 chiudeva la stagione in vetta al ranking mondiale: il ricciolino di Dunblane stava guardando il mondo dall’alto. L’acme della sua parabola.

La sorte, immancabile, tornava a farsi avversa palesando sé stessa sotto forma di un problema alle due anche che lo costringerà, con inaudito anticipo sulla tabella di marcia, ad infilarsi in corpo segmenti in titanio nel disperato tentativo di continuare a fare il tennista. Saranno quarantasei, alla fine, i tornei messi in bacheca, tra i quali è d’obbligo ricordare anche la vittoria nelle Finals ATP, l’erede del Master newyorkese. Per chiudere il cerchio, non poteva mancare il trionfo nella Coppa Davis, ancora una volta per la gioia di una scalpitante nazione affamata di tennis vincente. Tutto questo tributo perché ieri, per l’ultima volta, Andy ha calcato i sacri prati di Church Road. Dopo aver rinunciato al singolare, i problemi fisici sono i soliti, ha deciso di congedarsi dai suoi tifosi disputando il torneo di doppio proprio a fianco del fratello. A vederlo per l’ultimo tango londinese c’erano davvero tutti, i campioni di oggi e quelli di ieri. Lo si potrà ammirare ancora per qualche match, almeno fino all’estate, quando la racchetta di Murray sarà appesa al chiodo definitivamente. Tutto deciso, questa volta a prova di ripensamenti. È la vita e l’ordine precostituito delle cose, ma chi ama visceralmente questa disciplina ha il diritto di essere triste quando un giocatore capace di sublimare il nostro sport preferito si vede costretto a chinare il capo dinnanzi a Chronos e alle sue inviolabili leggi.

Dalla maledetta scuola di Dunblane alla cima del mondo, la storia di Andy Murray è qualcosa che abbiamo avuto il privilegio di vivere da aficionados e che, come sempre accade in questi casi, ci ha reso persone migliori. Non sempre i campioni dello sport hanno il dono dell’originalità e, anzi, è più facile vivano di personalità stereotipate per giunta verso il basso. Esternazioni preconfezionate, attitudine democristiana nel collocarsi nel mondo, mai una presa di posizione scomoda. Una noia mortale. Andy, di tutto ciò, è notoriamente plastica antitesi nonché la tridimensionale dimostrazione che si possa essere uomini a trecentosessanta gradi anche dedicando anima e corpo ad un obiettivo tanto fagocitante come può essere il professionismo dello sport. L’ennesimo motivo per il quale non finiremo mai di ringraziare Sir Andy, il sopravvissuto capace di riscrivere gerarchie apparse per troppo tempo inscalfibili. La garra di Scozia: cose da William Wallace.

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