In una partita a tratti davvero brutta – dirlo è inevitabile deontologia – causa tensione generalizzata e forse vento, si è osservata comunque piuttosto nettamente la classica differenza tra un grande giocatore e uno epocale. Sascha Zverev non ha ancora dimostrato di essere un vincente dei grandi tornei, ma ad averne di tennisti in grado di mettere insieme una carriera come la sua, checché ne dicano in molti. Fondamentali di rimbalzo solidi, super tenuta atletica, servizio devastante per continuità oltre che potenza. Risultato dell’armamentario messo in campo dal tedesco è questa finale disputata Parigi, a valle di un percorso che ha incluso gente poco raccomandabile come Rune, sconfitto in cinque set, e Ruud, in quattro. Seconda finale Slam della sua vita tennistica dopo quella degli US Open ceduti malamente a Thiem. Tradito dalla paura, quel giorno, annacquato alla lunga da Carlitos Alcaraz e dall’immancabile fifa, oggi. Perché, appunto, lo spagnolo non è un campione, di quelli ne nascono diversi, ma un giocatore che si ha la fortuna di apprezzare una volta ogni morte di Papa. Anche nelle giornate peggiori, tipo quella odierna, nella quale in maniera sinusoidale alterna senza soluzione di continuità bellezze ed obbrobri. Al punto che c’è chi lo pensa e chi mente: Sinner contro questa versione instabile di Alcaraz ci vince con la pipa in bocca, pure a mezzo servizio. Può darsi.
A Zverev piace molto incanalare lo scambio sui piani della regolarità, impostando una velocità di crociera medio-bassa che corrisponde alla sua zona confortevole di tennis. Quando ci riesce, per bravura o limiti altrui, diventa tignoso e vince spesso, perché potrebbe ripetere il gesto standard per due giorni di fila. Per non correre alcun rischio, Alcaraz, la cui tavolozza dei colori, al contrario, prevarica l’arcobaleno, ha speso il tempo del match senza mai giocare due volte di fila la stessa palla, mandando spesso ai matti il suo avversario che si è visto costretto a fronteggiare situazioni nuove ad ogni quindici. Roba da emicrania. Partita tutto sommato in controllo, nonostante l’altalena pericolosa del punteggio e, soprattutto, le consuete distrazioni suicide esibite da un giocatore, Carlitos, che talvolta dimostra di essere troppo innamorato del suo inesausto talento al punto da vagare chissà dove con la mente. Il narcisismo, peraltro comprensibile, di chi ha per le mani la possibilità di fare qualunque cosa e rischia di incappare nella scelta sbagliata. L’anticamera del disastro oggi (quasi) sfiorato.
Ne è venuto a capo lo stesso perché quando lo ha deciso ha sbattuto in faccia al rivale la differenza abissale di lignaggio tennistico. Lo si diceva già anni fa, del resto, incontrando l’ironia di molti addetti ai lavori. Di come Alcaraz fosse quantomeno della stessa genia dei tre dioscuri pigliatutto che l’hanno preceduto e più talentuoso di almeno due di essi. Forse ora, dopo il terzo Slam diverso messo in bacheca ed a un Australian Open dal chiudere il Career a poco più di vent’anni, il concetto sarà un po’ più chiaro anche a loro. Insomma, se sta bene – e non sempre succede perché le noie fisiche costituiscono un suo annoso problema – è difficile che Alcaraz possa perdere una partita importante. Differenza, appunto, di competenza nella disciplina: unico tennista epocale di un’epoca non particolarmente generosa in quanto a talento. Agli avversari, comunque, il dovere di restargli in scia il più possibile sperando che gli caschi qualcosa dalle tasche. Come ha fatto l’onesto Zverev che, seppur dal ridotto bagaglio in dotazione, ha attinto fino all’ultima arma.
Giornata sferzata dal vento, questa di Parigi, e non è mai una buona notizia per i tennisti, costretti a complicare piani ontologicamente già complicati per genesi. Ciò, purtroppo, a discapito della qualità complessiva del gioco, perché molti errori in queste situazioni sono imputabili alle bizze climatiche. Fortuna che il cilindro di Alcaraz ne abbia risentito poco oltre il minimo sindacale e, pur senza la continuità dei giorni deluxe dai quali è risultato essere per la verità assai lontano, le prodezze balistiche ad impreziosire lunghi frangenti di apatia non sono mancate. Partita, dunque, a sprazzi, con Zverev che, realisticamente, ha fatto ciò che gli è umanamente possibile, quindi prendersi le amnesie del rivale e regalare il meno possibile, e Alcaraz a sfregare la lampada che ospita un genio nella circostanza non sempre ricettivo. Risultato, cinque set. Primo ad allungare nei due set iniziali, Sascha può forse rimproverarsi di aver capito tardi, o non averlo fatto per nulla, che Alcaraz quest’oggi era piuttosto incline alla generosità e all’errore gratuito. Ma è difficile pensare che il risultato finale potesse essere troppo diverso da così. Alla lunga la Ferrari trova sempre il modo di sopravanzare la Panda, con rispetto parlando, anche se monta il ruotino.
Disquisizioni a parte, l’epilogo è che Carlitos, dopo New York e Wimbledon, si prende anche Parigi e riporta lungo la Senna un principio che probabilmente latitava a quelle campanilistiche latitudini ormai dal 2009, anno di gloria federeriano; quello per il quale vale la coincidenza niente affatto scontata tra bellezza profusa e vittoria. Noi, e quelli come noi esigenti il giusto, da Alcaraz pretendiamo decisamente di più, già a partire dal prossimo Wimbledon. Perché, in assenza di ciò, gli spunti da ricordare rischiano di calare in maniera drastica. A Zverev, invece, vanno i nostri più sinceri complimenti. Sempre doverosi nei riguardi di chi, per provare a vincere, chiede e ottiene da sé stesso tutto quel che c’è nel serbatoio.
Appuntamento ora in Church Road, teatro dei Championships, e chissà che il desaparecido Nick Kyrgios, ancora in tema di bellezza, possa aggirarsi per il quartiere e metterlo a soqquadro. Prima dell’auspicabile rivincita tra gli amici-nemici Jannik e Carlitos, il gotha odierno con buona pace dei volitivi Zverev del circus.