Qualcosa è andato storto, bisogna avere l’onestà intellettuale per dirlo. Se in Italia la meravigliosa escalation di Jannik Sinner è efficace anestetico al tutto, il resto del mondo, per la verità già da un po’, si interroga sullo stato di salute del tennis che per usare un eufemismo versa in condizioni preoccupanti. Non che servisse fornire l’ennesima dimostrazione inconfutabile al suddetto pensiero ma, involontariamente, l’atto finale degli Internazionali d’Italia andato in onda nel tardo pomeriggio di domenica ha finito per farlo. Una prece, intanto, per chi ha speso cifre folli per uno spettacolo – si fa per dire – simile.
Se l’universo femminile ha regalato la miglior finale romana possibile, quella tra la numero uno Swiatek e la numero due Sabalenka, quello maschile non ha saputo fare di meglio che concedere il palcoscenico al duo Zverev-Jarry che, senza mancare di rispetto a nessuno, ha lo stesso appeal della replica di una puntata di Beautiful ma confezionata con la qualità tecnica di una telenovela argentina degli anni ’80. Secondo pronostico ha vinto il tedesco, una partita nella quale il suo avversario in undici turni di ribattuta ha incamerato la miseria di cinque (!) punti, roba che se Zverev sul campo da tennis fosse un minimo cinico – e non lo è – questo strazio di match sarebbe durato un’ora, con premiazione, doccia e conferenza stampa comprese. Invece, il 6-4 7-5 finale ha costretto gli spettatori ad un calvario sensibilmente più lungo, oltre che a formulare un inevitabile paragone storico.
Anno 2006, nemmeno un ventennio fa. In un pomeriggio, che sarebbe diventato immediatamente leggenda, andava in scena il Fedal che, seppur in assenza di controprova, ha indirizzato in maniera granitica i successivi lustri di una delle rivalità tennistiche più emozionanti di sempre, quella tra Federer e Nadal. Il più grande talento di questo o eventuali altri universi e l’uomo che più di ogni altro ha sublimato il concetto di rifiuto della sconfitta. Partita epica, tecnicamente ineccepibile, interminabile nello svolgimento e avversa alle coronarie, quella romana, vinta dal maiorchino dopo che il basilese, fin lì formidabile, da consolidata (per lui) tradizione ha dilapidato due match point con due dritti sparati nel nulla. Con il tarlo di quella partita donchisciottesca che lo ha relegato per anni a vittima sacrificale, almeno sulla terra battuta, del suo rivale per antonomasia. La nemesi capace di levargli sonno e lacrime. Tutto ciò, per dire che se dal Fedal, per giunta in versione deluxe, si è passati allo Zverev-Jarry di ieri, ecco che qualcosa non dev’essere andato per il verso migliore.
A preoccupare, e non poco, due aspetti, ora che sembrano essere sopraggiunti i titoli di coda, quantomeno ufficiosi, anche per Djokovic, ma del serbo se ne saprà di più a Parigi, e Nadal, il cui fisico lo ha forse definitivamente abbandonato. Uno è legato alla condizione di Alcaraz, talento epocale con il compito e la qualità per non fare rimpiangere i dioscuri che l’hanno preceduto. Lo spagnolo, già vincitore di due Slam e depositario a più riprese della prima posizione mondiale, trascorre più tempo in infermeria che sui playground e, considerata l’età, ciò non fa presagire nulla di buono. La mancanza di continuità di gioco, inoltre, ne sta minando anche la fiducia tennistica, tanto che nelle ultime apparizioni agonistiche non è apparso nemmeno il lontano parente del giocatore meraviglioso che avevamo imparato a conoscere, finendo pure per perdere contro giocatori di un paio di fasce più basse. Non è un iperbole: oggi c’è un tennis con Alcaraz e uno senza, con la seconda nefasta opzione che ammazza la qualità globale del circus.
Il secondo, invece, è connesso alla mancata esplosione di alcuni giocatori potenzialmente dominanti e l’estemporaneita congenita di altri. Shapovalov e Auger-Aliassime, ragazzi sui quali si era fatto un certo affidamento, annaspano. Il principe Kyrgios, bontà sua, ha sempre di meglio da fare. Dimitrov, il baby non più baby Federer, vive una seconda giovinezza ma gli anni migliori per lasciare una traccia indelebile sono andati. Medvedev, che affascinante non lo è ma interessantissimo nella sua ontologica avversione per il bello, brucia metà delle sue energie nervose per litigare col mondo che lo circonda anziché per disporre di avversari decisamente meno forti di lui. Poi c’è Sinner, l’uomo chiamato serietà e italica provvidenza che a breve sarà il più forte di tutti, anche per il computer visto che al lato pratico lo è già, ma, campanilismo a parte, è personaggio di una noia mortale dentro e fuori dal campo e, come non bastasse, a vent’anni già litiga con le anche. La kryptonite dei tennisti, vero, ma di solito più attempati di lui, vedi Murray. Sempre a proposito di notizie non buone.
Tornando alla finale, c’è davvero poco da raccontare, qualcosa che fuoriesca almeno un minimo dalle desolante pochezza. Zverev, di livello superiore e paradossalmente tra i favoriti per l’imminente Roland Garros, è stato in perenne controllo delle operazioni, tutto senza mai fare qualcosa in più del compitino e che non fosse aspettare l’errore dell’avversario puntualmente arrivato. Al di là della rete, Jarry a fare con riconoscibile garra latina quel che ha potuto, cioè poco. In sintesi, qualche sportellata tirata col dritto ma che non sempre ha trovato il perimetro del campo e un certo coraggio nel fronteggiare la miriade di palle break concesse. Troppo poco per l’atto conclusivo di un Mille. Ancora meno, questa volta più in generale, per non fare apparire il dopo Federer-Nadal-Djokovic come uno sport differente, qualitativamente lontano anni luce dai fasti del triumvirato.