Per una che nella disciplina del doppio ha completato il Career Grand Slam, che significa aver vinto almeno una volta tutti i quattro Major, la finale degli Internazionali di Roma potrà anche non essere l’evento clou della carriera ma, da italiana e con ormai trentasette primavere sulle spalle, è comunque un bel traguardo. È lontano una decade il suo triennio d’oro, quello che va dal 2012 al 2014, e non dev’essere facile accettare la legge inesorabile del tempo, ma Sara Errani, per dirla come Vasco Rossi, è ancora qua che bagna di sudore una canottiera dopo l’altra e si sporca di mattone tritato dalla testa ai piedi con la voglia di una ragazzina. La sua storica compagna di doppio, la meravigliosa Roberta Vinci, è da qualche stagione che ha appeso la racchetta al chiodo, salvo poi imbracciare quella da padel, e per questa scorribanda romana Errani ha scelto di accompagnarsi a Jasmine Paolini, in questo momento la più forte tennista italiana nonché aspirante top ten delle classifiche mondiali.
Una che, con Sara, ha molto di tennistico in comune e che se il talento non è quello della Vinci, del resto non sono molte a poterlo vantare, è giocatrice che contribuisce degnamente alla causa del tennis azzurro in gonnella che cerca faticosamente di non far rimpiangere troppo la golden age di Schiavone, Pennetta, Vinci e, appunto, Errani. Quartetto che, manco a dirlo, ha trionfato in tre edizioni di Fed Cup su quattro vinte in totale dall’Italia nella sua storia – la romagnola non era presente nel 2006 – portando il paese a più riprese in cima al mondo.
Se n’è sentite dire dietro di tutti i colori, Sarita, nell’arco della carriera, perché, al solito, gli italiani sono sempre un popolo di commissari tecnici anche quando ignorano la materia per la quale sentenziano. Il tennis, nello specifico. Poco appariscente, dicono. Ancora, dotata di un servizio non all’altezza del ruolo, poco propensa a concedersi allo spettacolo, depositaria di un tennis monocorde e noioso. Tutto terribilmente falso ma, si sa, sono gli inevitabili effetti collaterali della sopraggiunta popolarità di una disciplina. Errani, innanzitutto, vanta una mano educatissima e l’essere stata la numero uno al mondo tra le doppiste ne è la riprova. Non abbandonarsi ad orpelli e arzigogoli balistici, tutto a vantaggio di una concretezza talvolta esasperata, non certifica né l’impossibilità di saperlo fare e nemmeno una scarsa qualità tecnica; significa più banalmente fare sempre ciò che è più funzionale al proprio tennis. Nel caso di Sara, sopperire ad un deficit di pesantezza di palla e soluzioni vincenti con armi altrettanto lodevoli quali l’intelligenza tattica, la geometria, la testa granitica, i polmoni capienti e le gambe che mulinano alla velocità della luce senza conoscere la fatica. Argomenti nei quali Errani è docente universitario.
Competenza anche nel gioco di volo, alla faccia dei detrattori, Sara ha sublimato un frangente del gioco, quello della risposta al servizio, facendo di una situazione teoricamente disagevole la propria cifra stilistica nonché punto di forza. Consapevole di soffrire la potenza devastante di avversarie alte una spanna più di lei soprattutto all’atto di andare a servire, il suo tallone d’Achille, ha messo a punto negli anni la capacità di fare dei turni di ribattuta la sua comfort zone, per il principio per il quale le campionesse, con umiltà e sacrificio, trasformano sempre le necessità in virtù. Quella di Errani, pertanto, per anni è stata la migliore risposta del seeding. Non a caso può vantare di aver vinto più della metà dei giochi di risposta in un’epoca caratterizzata da donne capaci di scagliare palline con velocità non così dissimili da quelle raggiunte dai colleghi uomini.
Nata in provincia di Ravenna e passata giovanissima per l’accademia del compianto guru Nick Bollettieri, Sara, che è professionista dal 2002, può vantare più di un record azzurro. Quello forse più significativo, perché paradigma di longevità, è il numero dei match vinti nel corso della carriera da una tennista italiana. Più di seicento, più di Francesca Schiavone che prima di lei deteneva il primato. Detto dei successi in doppio, anche in singolare Errani ha fatto sul serio e non poco. Nove tornei del circuito maggiore messi in bacheca, un best ranking fissato al numero cinque, novantaquattro settimane consecutive di permanenza in top ten e la finale al Roland Garros, fanno di lei un monumento della nostra storia tennistica. Sempre a proposito di giocatrici epocali, la divina Martina Navratilova ha detto un giorno, riassumendo in una frase l’essenza dell’italiana, che la forza di Errani è quella di sapere elaborare dentro di sé la complessità del gioco. Che tradotto significa la capacità di aver previsto l’andamento di un match, scendendo in campo già attrezzata delle necessarie contromosse. Testa bassa e pedalare, ma solo all’apparenza. Perché una partita di Errani è pedagogia tennistica ai massimi livelli e, purtroppo, sono sempre in troppi gli aficionados a non avere la sensibilità e la competenza per dargliene atto.
Non è dato sapersi fino a quando Sarita avrà voglia di competere, ora che i suoi obiettivi sono giocoforza ridimensionati, ma la finale di questo pomeriggio, peraltro davanti al pubblico amico, è l’ennesimo regalo che fa al nostro tennis, oltre che a sé stessa. L’esito della partita, ovviamente, non potrà spostare di un millimetro il giudizio su una grande campionessa ma, non lo si nega, l’eventuale vittoria ci farebbe davvero felici. Vamos, Sarita, prendiamoci Roma.