51 per Dejan Bodiroga, il genio slavo scoperto da Mozart-Tanjevic che rifiutò sempre l’Nba- di Teo Parini

Non era semplicemente un giocatore di basket. Era poesia in azione, che illuminò Trieste e la Stefanel del grande dioscuro di Bosna e di Caserta

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Anni Novanta, penisola balcanica. La guerra che metterà fine al sogno della Jugoslavia dei popoli è tristemente in atto e, così, un ragazzino parecchio alto e con l’espressione stralunata di chi nasconde qualcosa, spesso un talento, per continuare a fare ciò che gli riesce meglio, che significa giocare a basket, molla tutto, aggira l’Adriatico e si trasferisce in Italia. A Trieste, dove un Vate della palla a spicchi lo accoglie a braccia aperte. Perché sa benissimo come andrà a finire. Dejan incontra Bogdan e, più che il titolo di un film, è la genesi di una parabola cestistica che in Europa non avrà eguali. Quella di Bodiroga e, ovviamente, di Tanjevic. E se il secondo definiva il primo il “Magic Johnson bianco”, perché quando una guardia palleggia come un play e fa venti punti di media a partita il paragone lo si può azzardare, ecco che quello che si verificò nella decade successiva fu obbligatoriamente meraviglia cestistica.

E chi se ne importa se Dejan, chiamato dai Sacramento Kings per trasferirsi in NBA, disse no grazie, resto qui. Perché il talento non conosce i lati degli oceani e ben si sposa di qua e pure di là, questione di gusti. E a Bodiroga piaceva maledettamente il Vecchio continente, così noi ce lo godemmo sotto casa fino all’ultimo canestro. L’epopea inizia a Milano quando, da Trieste, il signor Stefanel sposta armi e bagagli nella casa delle Scarpette Rosse. Sempre a Milano, lo scudetto non lo si vinceva da un po’ e, si sa, da quelle parti la pazienza ha una scadenza breve. Anno 1995, il roster è di quelli potenzialmente esplosivi. Il regista è Nando Gentile e non serve aggiungere altro. Rolando Blackman, già un fattore in NBA, sa fare mille cose ma la più importante di tutte non se la fila mai nessuno. Ha i piedi talmente veloci che sul palleggio avversario difende con la pipa in bocca. Fucka, l’airone, ha mani di seta e più la palla scotta e più viene fuori la sua arte. I lunghi non sono proprio i primi della classe, detto per onestà, ma Baldi e Cantarello hanno comunque il pregio di farsi notare poco e lavorare molto, anche di gomito. E poi c’è il miglior sesto uomo della lega, il lupo Portaluppi, che esce dalla panchina, mette a posto i piedi sulla sua sua mattonella preferita e inanella triple come bere un bicchiere d’acqua. Infine, lui. Dejan Bodiroga, l’uomo che trasforma una buonissima squadra in una corazzata. La transizione da bello a vincente.

Manco a dirlo, quel campionato se lo aggiudica Milano e, ciò che più conta, il popolo meneghino del basket torna a riempire il palazzo. Bodiroga al termine della cavalcata saluta tutti, lo attende il Real Madrid dove resterà un paio di stagioni prima di trasferirsi in Grecia, sponda Panathinaikos, dove inizia il suo rapporto privilegiato con la Coppa Campioni o come diavolo si chiama oggi. Ne solleva due e, poi, pure una terza, ma con la casacca blaugrana del Barcellona. In nazionale la musica non è troppo diversa: chi ha Bodiroga come compagno vince. Così, con la canotta della Jugoslavia e delle sue derivazioni successive sulle spalle, mette in bacheca due ori mondiali, un argento olimpico e tre ori europei. Un saccheggio inesausto.

Prima di dire basta, Dejan fa ritorno in Italia, a Roma. Ventiquattro mesi, o giù di lì, nei quali non vincerà nulla di significativo ma, all’annuncio del ritiro, il pubblico capitolino gli riserva trenta minuti (trenta) di standing ovation. Tutti in piedi, a spellarsi le mani. Questione di DNA, quello che lo accomuna ad un altro gigante, forse il più grande di tutti, Drazen Petrovic. Già, perché era proprio suo cugino. Duecentocinque centimetri di abbacinante eleganza, Dejan sul parquet ha ricoperto con la stessa efficacia tutti ruoli previsti dal protocollo, fulgido esempio di futuristico All-Around. Un antesignano del gioco totale, campione che sta al basket come Cruijff al soccer. Leggenda vuole che Bodiroga attendesse sempre il minuto numero sette della partita per effettuare il primo tiro a canestro, mai prima, studiando meticolosamente compagni e avversari per sette giri di lancette. Ciò al fine di comprendere in quale veste, quel giorno e in quel contesto, potesse assurgere a fattore decisivo per spaccare in due la partita. Illusionista dai mille trucchi e calcolatore scientifico, quindi, tutto in uno.

“Prima va a destra, poi va a sinistra, prende la mira e ciuff!”. Lo cantavamo noi supporter delle Scarpette Rosse che riempivamo gli spalti, tra estasi e incredulità. Un coro che, per le vie di Milano nei giorni dedicati all’Olimpia, sembra echeggiare ancora. Tanti auguri, Genio.

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