Intendiamoci, in termini assoluti, Alcaraz e pure Rune sono tutta un’altra cosa. A non averlo presente si fa solo un torto ai nostri due migliori giocatori, dai quali si rischia di pretendere ciò che non è nelle corde. Il giudizio sul loro operato, pertanto, non può prescindere dalla giusta collocazione nello scacchiere mondiale.
Tuttavia, ciò non toglie che il primo confronto diretto tra Sinner e Berrettini abbia rappresentato uno dei momenti più alti nella storia del tennis azzurro, sicuramente il più quotato del dopo Panatta; una rivalità che è ricchezza per il nostro movimento e che, dopo anni di vacche magre e di Fognini-dipendenza, è tornato a godere di un’invidiabile stato di salute.
L’incrocio a tinte azzurre si è verificato qualche ora fa nel 1000 di Toronto, il Canadian Open, torneo in corso di svolgimento in questa settimana caratterizzato da una superficie di gioco decisamente veloce e quindi, seppure per motivi diversi, adatta a mettere in risalto le peculiarità di entrambi. Sinner ha ripreso la corsa verso il Master di fine anno, quello dedicato agli otto migliori giocatori al mondo in termini di ranking, dopo un torneo di Wimbledon piuttosto impegnativo a livello atletico, concluso con la netta sconfitta in semifinale contro Djokovic, e qualche settimana dedicata a ricaricare le batterie in vista della stagione sul cemento. Berrettini, invece, sembra essere uscito, o si appresta a farlo del tutto, da un periodo psicofisico terribile che, in soldoni, ha significato per lui noie fisiche in sequenza, il morale inchiodato sotto le scarpe e l’incapacità, tipica della fiducia che latita, di produrre il tennis di sua competenza. Le premesse per un buon incontro e, perché no, per una prima resa dei conti sulla via del riconoscimento del più forte in casa Italia c’erano tutte e il match, per onestà intellettuale non memorabile ma nemmeno da buttare, ha fornito le risposte che si cercavano.
Ha vinto l’altoatesino in due set piuttosto rapidi, un’ora e mezza di sforzo doccia inclusa, nei quali ha concesso appena sette giochi all’avversario che non ha mai dato l’impressione di poter vincere la partita. Nemmeno quando, in uscita dai blocchi, tra i due era proprio Berrettini quello più sicuro nei turni di battuta e più vicino a strappare quella dell’avversario. Un fuoco di paglia. Perché, scampato il pericolo di cinque palle break affrontate e salvate col piglio del campione nel quinto gioco del primo parziale, la velocità di crociera di Sinner si è rivelata indigesta per Matteo, costretto a chiedere al suo gioco – al solito ancorato sugli ottimi fondamentali di servizio e dritto – un ritmo che non gli appartiene, finendo per sbagliare più del dovuto. Inevitabile, quindi, il break subito dal tennista romano sul punteggio di quattro giochi pari che, di fatto, ha deciso il primo set e indirizzato l’incontro su binari, purtroppo per lui, immutabili.
A essere severi, ma neanche così tanto, la sensazione che si è percepita osservando il linguaggio del corpo di Berrettini è quella del giocatore che, sapendo di non poter uscire vincitore dalla contesa, si preoccupa di iniziare una maratona col piglio del centometrista per assicurarsi la possibilità di disputare almeno uno scampolo di partita alla pari con il rivale destinato inevitabilmente a prendere il largo. Per analogia, la partita ammirevole che la nazionale italiana di rugby è solita disputare contro le compagini più quotate: partenza a razzo, feroce aggressività iniziale con un dispendio di energie incompatibile con la capienza del serbatoio e la durata del match, logorio precoce, cedimento strutturale e tracollo. Insomma, da Toronto la conferma che, in generale, il miglior Sinner sia decisamente più competitivo del miglior Berrettini e non solo in questo momento specifico.
Questione di rischi. Pochi, quelli che servono a Jannik per mantenersi su certi livelli di gioco; molti, quelli che, al contrario, deve assumersi Matteo per provare a colmare la minore competenza tecnica e una coperta apprezzabilmente più corta. In uno sport come il tennis, che glorifica sfacciatamente le percentuali, ciò certifica quasi matematicamente la differenza che passa tra vittoria e sconfitta. Che non vuol dire che Berrettini non sarà in grado di togliersi delle soddisfazioni incontrando nuovamente Sinner, ma che, affinché ciò possa succedere, occorre un certo allineamento astrale.
Tornando all’incontro, ci ha detto sostanzialmente due cose. La prima è che la convalescenza di Berrettini è quasi un brutto ricordo, perché, punteggio a parte, lo si è visto vicino al suo miglior standard, sporcato solo da un pizzico di tensione quale comprensibile retaggio di un recente passato tribolato. La seconda è che Sinner dovrebbe (è sempre meglio usare il condizionale) aver conseguito la maturità giusta per vincere senza soffrire più del dovuto le partite da vincere; la non banale condizione di chi ha imparato a rispettare il pronostico quando gli è favorevole. Che tradotto significa arrivare sempre in fondo ai tornei per poi giocarseli al cospetto del gotha della disciplina. Hai detto niente.
Se entrambi non sono alfieri della bellezza quale inviolabile regola di vita sportiva, ma per colmare questa lacuna abbiamo la fortuna sfacciata di annoverare tra i nostri connazionali un genio epocale come Musetti, va dato atto a Sinner e Berrettini di consentire al tennis italiano di essere competitivo ai massimi livelli sui dodici mesi grazie ad una sostanza tennistica dal peso specifico del piombo. Riprendendo la considerazione iniziale, appurato che Alcaraz in assenza di crampi e sfighe varie appartiene ad un altro pianeta e che la sua bacheca finirà per contenere una numerosità inesausta di trofei, non servirà una quantità impossibile di buona sorte affinché uno dei nostri possa mettere a referto un risultato importante. Morale, abbiamo visto alzare coppe prestigiose a giocatori decisamente meno attrezzati a farlo dei nostri ragazzi. Non è dato sapersi quando e in quale misura ma, prima o poi, dalle nostre parti succederà qualcosa di bello.
di Teo Parini