Wimbledon: la ley del rey Carlitos. Dura lex, sed lex

Teo Parini rilegge il bis del 21enne spagnolo all'All England

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Adesso ci diranno che, in fondo, Novak Djokovic ha trentasette anni e che tra Roland Garros e Wimbledon ha pure trovato il modo di farsi dare una sistemata al ginocchio. Che, per carità, è tutto vero, ma la sconfitta di ieri ha ribadito un’altra cosa. Se Carlitos Alcaraz non si fosse distratto, cosa che fa spesso, con tre match point a disposizione e due set di vantaggio, oggi racconteremo di una sconfitta ancora più severa per il serbo che, prima della sopraggiunta ansia del murciano in dirittura d’arrivo, non è mai riuscito a strappare il servizio al suo avversario, faticando come un dannato per tenere il proprio. Non c’è stata partita, semplicemente perché tra Alcaraz e chiunque altro su questa Terra ci sono due categorie di differenza.

Chi dice che, qualora ci fosse la controprova, il Djokovic migliore e pressoché invincibile del 2011distruggerebbe quello odierno, ha certamente ragione da vendere. Il problema, semmai, è che a vent’anni e poco più, Alcaraz sa fare il triplo delle cose del Djokovic d’annata. Siamo di fronte ad un giocatore potenzialmente capace di riscrivere le regole del gioco e che alla sua età ha incamerato ‘solo’ quattro Slam perché, come detto, ha ancora la tendenza a divagare un po’ troppo e perché la gestione della stagione non sempre è risultata impeccabile da parte del suo team. L’anno passato, per esempio, la spia della riserva gli si è accesa proprio dopo la vittoriosa campagna londinese, stesso posto e stesso epilogo, e non si è più spenta per tutto il resto del 2023, Us Open e Finals inclusi. Che ieri non ci sarebbe stata partita era, o meglio avrebbe dovuto esserlo, chiaro a tutti almeno dal giorno della semifinale, quando un Alcaraz con pipa e ciabatte faceva a fette l’ottimo Medvedev di queste due settimane. Il giustiziere di Sinner non aveva nemmeno disputato un brutto match ma dall’altra parte i giri del motore non si sono mai alzati più di tanto, ciò a testimoniare lo stato di assoluto controllo esibito da un Alcaraz che forse ha imparato pure a centellinare le energie e badare un po’ di più al sodo.

Ieri, invece, giù il piede sull’acceleratore da subito e contesa in ghiaccio dopo un’ora di gioco. Del resto, alla compilazione dei tabelloni era risultato chiaro che il vincitore sarebbe uscito dalla parte alta, ingolfata dei migliori a scapito di una parte bassa presidiata da un fortunatissimo Djokovic, il cui percorso verso la finale a definirlo abbordabile si sbaglia per difetto. Considerato anche il giorno di riposo supplementare ottenuto prima della semifinale con Musetti, grazie al forfait di De Minaur appiedato da noie di schiena. Se della finale c’è purtroppo poco da dire, e non sarà l’ultima volta che gli spunti saranno ridotti al minimo sindacale, molto, invece, c’è da dire su Carlitos che, alla stregua del Federer di inizio millennio, ha fatto irruzione sul pianeta tennis riaffermando un principio che sembrerebbe scontato ma nella disciplina del diavolo non lo è affatto: il più bravo è anche il più vincente. Perché non serve ribadire che giocare bene, financo meglio di tutti, non sia garanzia di nulla, figuriamoci della vittoria. Quando ciò accade, significa che il tennis ha rimesso ogni tassello al suo posto.

Computer a parte, che continua a premiare il nostro Sinner, lo scettro di numero uno spetta ad Alcaraz che, simpatie a parte, è già ascrivibile alla cerchia dei più grandi all-time. Non ha l’eleganza del dioscuro svizzero, del resto chi ce l’ha, ma il suo ventaglio di soluzioni è quantomeno dello stesso ordine di grandezza, forse anche superiore e non è lesa maestà. Tecnicamente, non c’è qualcosa di conosciuto che ne esplori una lacuna, la competenza è accademica in ogni zona di campo e qualunque sia l’esigenza contingente. Giù il cappello, come le volte nelle quali un campione epocale piombi sulla scena spostando l’asticella del gioco un po’ più in alto di come l’avesse trovata prima. Sufficientemente in su da risultare intransitabile, eccetto che da lui. La domanda vera, semmai, è legata alla voglia di sacrificio che un ragazzo di vent’anni potrebbe comprensibilmente non avere a lungo.

La speranza di ammorbidire almeno un po’ la tirannia passa per la caparbietà di Sinner che, a pelle, sembra ragazzo che più dedito di così alla disciplina non si possa essere. Due le ragioni. Una è di natura statistica: Jannik spesso riesce a batterlo, sfruttando una predisposizione alla regolarità che si fa preferire in aggiunta agli ovvi meriti balistici che, indipendentemente dal rivale, sono da grande campione. La seconda, invece, è più legata al contorno. Se Carlitos può esprimere un analogo livello dappertutto, ghiaia e ghiaccio inclusi, il cemento è per Sinner la zona di maggiore comfort e, almeno in linea teorica, gli Us Open potrebbero offrirgli più chance di contendere lo Slam allo spagnolo. Lo stesso ragionamento vale pure per Medvedev e, pertanto, a New York ci si potrebbe divertire maggiormente. Anche considerata la predisposizione di Alcaraz di cui sopra ad arrivare un po’ spremuto alla fine dell’estate. Il pensionamento di Federer, come fu a suo tempo quello di Sampras, avrebbe potuto aprire una voragine nell’ecosistema tennis in quanto a bellezza, in un periodo storico nel quale tutto sembra remare dalla parte opposta. Fortunatamente, nemmeno il tempo di metabolizzare il lutto sportivo, e l’esplosione di Alcaraz ha dato continuità alla parabola del talento senza che ci si potesse annoiare a lungo. Tennis da highlights, insomma, con il pregio di essere pure il lasciapassare per gli almanacchi. In altre parole, ancora una volta è un privilegio esserci.

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