Qualsiasi risultato diverso dal trionfo di Alcaraz a Wimbeldon, francamente, sarebbe stato una grossa sorpresa anche con un titano come Djokovic, il più vincente di tutti, a contendergli il titolo più prestigioso del tennis.
Per la verità, quelli che oltre gli almanacchi sono abituati a guardarsi qualche match prima di lanciarsi in un pronostico saranno rimasti sorpresi che Carlitos abbia dovuto sudare la bellezza di cinque set e quasi cinque ore per regolare un avversario al solito robotico e imperturbabile ma con insufficienti barriere per arginare uno tsunami come forse non si era mai visto prima.
I tifosi del serbo meno obiettivi storceranno il naso, ma la differenza di qualità tennistica tra lui e il rivale, in questo preciso momento storico, è assai marcata con il gap che diventerebbe financo abissale se solo il confronto lo si potesse fare con il Djokovic coetaneo di questo Alcaraz anagraficamente imberbe. Insomma, lo spagnolo, in quanto a tennis d’autore, parla un’altra lingua, dà del tu alla disciplina perché capace di districarsi con semplicità – che poi è la definizione più azzeccata di talento – in azioni ad altri precluse e non ha paura nemmeno del diavolo. Una benedizione.
Quando a fine incontro Nole lo ha definito come il mix tra lui, Federer e Nadal, purtroppo per chi se lo ritroverà davanti nei prossimi anni, non sbaglia se non per difetto; una macchina da tennis perfetta con qualche non sostanziale momento di inceppamento dovuto più all’esuberanza dei vent’anni che a congenite noie strutturali.
Esuberanza che deve aver giocato un brutto scherzo nel fargli approcciare sciaguratamente un incontro che, al di là di tutto, rappresentava il crocevia più importante della sua giovane carriera e che con ogni probabilità lo ha costretto ad un pomeriggio più complicato del previsto. Vivaddio, Alcaraz è pur sempre un uomo e la titubanza nell’uscita dai pomposi blocchi di Wimbledon avrebbe potuto costargli ancora più cara se solo Djokovic non avesse sotterrato il rovescio (è successo davvero) che lo avrebbe spedito avanti addirittura per due set a zero. Anche se, almeno in assenza di crampi, è difficile pensare che Alcaraz alla lunga non avrebbe finito per prevalere dopo aver sfoderato per intero tutto l’arsenale disponibile. Perché, a vederlo giocare, sembra davvero in grado di modulare l’intensità degli incontri in funzione delle necessità oltre che a piacimento: se serve uno ci mette uno, se serve dieci ci mette dieci. Un po’ come fanno le superpotenze mondiali quando decidono di fare la guerra, vincendola.
A Djokovic, quindi, va il merito non di poco conto di aver regalato al pubblico una partita magari non memorabile – ne abbiamo viste di migliori – ma vera e di aver dato ancora una volta la dimostrazione plastica che con abnegazione, ambizione, intelligenza e passione si possa restare al vertice della disciplina anche a trentasei anni suonati. In termini numerici, tralasciando la fortuna di un tabellone piuttosto morbido che è comunque parte del gioco, questa edizione dei Championships attesta che Djokovic, murciano escluso con Rune e Medvedev da verificare, è sempre un taboo insormontabile per tutto il resto del circus. Un gran bel problema, ma è un’altra storia.
Alcaraz non è elegante nelle movenze come Federer, la cui gestualità rimane non replicabile, ma dal momento dell’impatto in poi il risultato sulla pallina è lo stesso prodotto dallo svizzero: fa quello che vuole lui. Di rimbalzo, al volo, col servizio, in risposta. Con qualunque effetto conosciuto dalla fisica classica e ogni traiettoria codificata dalla geometria euclidea. Con il bazooka a sparare bordate o con il pennello a dipingere quadri, tutto compendiato nello stesso caleidoscopico tennista. La serenità, poi, con la quale si è approcciato a servire per il match – esplorando la famigerata zona Djokovic, quando a Nole vengono gli occhi da tigre di chi rigetta l’ipotesi della sconfitta – è la comunicazione in stampatello agli abitanti del pianeta tennis che sconti alla tirannia non sono previsti dal protocollo. Scordiamoci, quindi, gli imbarazzi di Federer, l’unico giocatore dell’Era Open con il quale ha tecnicamente senso intavolare un parallelismo con il già epocale spagnolo.
Il valore intrinseco del secondo Slam messo in bacheca dallo spagnolo va ovviamente oltre la spicciola considerazione statistica, considerando il fatto che gli amanti dei numeri avranno di che aggiornarla di continuo. Il significato più importante è da ricercarsi in un’ottica più generale. La vittoria di Alcaraz, o meglio di uno con le sue peculiarità, restituisce al talento il ruolo egemone che troppe volte ha finito per non recitare in uno sport diabolico che, con l’avvento degli attrezzi moderni e della supremazia del corri-e-tira, ha privilegiato componenti diverse da quelle prettamente manuali. In soldoni, con Alcaraz il più competente di tutti torna ad essere anche il più forte di tutti e non serve dilungarsi su quanto tutto ciò sia un bene per la disciplina che fu di Laver, McEnroe e annessa genialità. Con Alcaraz non vince il più intelligente, il più resistente, il più solido, il più scaltro: vince il tennista in grado di saper fare più cose, quello con il maggior numero di dardi nella faretra, quello con la mano più educata. Poesia, per chi ama il tennis innanzitutto perché sinonimo di bellezza.
Detto di Djokovic e della sua commovente difesa del fortino, alla luce della finale occorre rivalutare in chiave positiva sia la prestazione di Berrettini, capace di strappare un set al futuro vincitore, che di Sinner, il quale, con un pizzico di buona sorte in più, avrebbe anche potuto far partita pari con il serbo che ha poi dimostrato di essere nella sua migliore versione possibile. Il problema di un certo imbarazzo, semmai, è che sono in troppi gli aficionados a pensare che gli azzurri siano fatti della stessa pasta di Alcaraz e, pertanto, che considerino fallimentare una campagna londinese che al contrario non avrebbe potuto essere più soddisfacente per i nostri connazionali. Musetti a parte, per il quale sarà opportuno spendere in futuro due parole a sé.
Il Re è morto, viva il Re! Wimbledon, dall’austerità dei prati in Church Road in una cornice che più appropriata non avrebbe potuto essere, ha ufficializzato ciò che di fatto era palese da tempo e che solo qualche accadimento casuale aveva procrastinato. La continuità dell’istituto monarchico, quale forma di governo tennistico, è adesso garantita da un tiranno la cui presenza non può che essere accolta con entusiasmo dai sudditi, in una contraddizione in termini che tanto fa bene al nostro sport preferito.
Buon lavoro, Maestà.
Teo Parini