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Us Open: le banane di Chang, la legge di Alcaraz e l’attesa per Jabeur- di Teo Parini

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Chi masticava tennis già negli anni novanta non avrà difficoltà a ricordare la simpatica parabola di Michael Chang. A lui si associano almeno due aspetti: le banane ingurgitate tra un gioco e l’altro e la capacità ineguagliabile di coprire il campo grazie a piedi ipersonici.
Se a ciò si potesse associare quel che sta sopra la cintura di Andre Agassi e che lo ha reso grande, dunque anticipo forsennato, mano educata e senso euclideo, il risultato avrebbe nome e sembianze di Carlos Alcaraz che meravigliosamente compendia tutto quanto citato.

Chang (e le banane)
Il diciannovenne spagnolo, che al termine di una battaglia che ricorderemo a lungo ha piegato un altrettanto meritevole Jannik Sinner sulla strada delle semifinali newyorkesi, è la sublimazione degli ossimori. Oltre ad appartenere alla cerchia di coloro che danno del tu alla pallina grazie ad un talento esondante, Carlos esibisce, infatti, la migliore transizione dalla fase difensiva a quella offensiva che probabilmente si sia mai vista. La sua è pertanto una difesa-offensiva. Perché arriva in condizioni di equilibrio stabile su qualunque palla alla stregua di Chang ma, al contempo, rende la pariglia come se fosse Agassi. Al punto che, con lui, ha poco senso spacchettare le due classiche fasi di gioco: questo è tennis totale, un po’ come il calcio di Cruyff.
Alla sua età è difficile pensare a un bagaglio tecnico più assortito. Alcaraz sa già fare un sacco di cose complicate: cambia rotazioni e traiettorie di continuo, ha spiccate capacità di tocco, si destreggia nei pressi della rete, alterna ferro e piuma con disinvoltura all’interno dello stesso scambio, possiede il montante del ko sia a destra che a sinistra. Non è iperbolico, è potenzialmente tirannico. E, disinnamoramento al gioco permettendo, crescerà ancora.
Questa edizione degli US Open, vincesse anche un Ruud qualsiasi, ha saputo regalare momenti tennistici di qualità assoluta come non accadeva da diverso tempo. La dimensione assennata il giusto di Kyrgios, l’esuberanza policromatica di Alcaraz, la pulizia nella gestualità da scuola cecoslovacca che fu di Sinner, l’arrembanza disordinata e festaiola di Tiafoe. Presto per cantare vittoria ma il tempo anestetizzato dei Djokovic potrebbe essere finito.
Guai a dimenticarlo: tra le quattro ragazze superstiti c’è anche Jabeur. Chi si domanda il perché del parallelismo si merita vent’anni di Swiatek.
Teo Parini

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