Us Open: Alcaraz è perfetto, Sinner no

Teo Parini rilegge la finale di Flushing Meadows

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Quarantotto è il numero che ha inchiodato Jannik Sinner alla sconfitta nella finale degli US Open disputata e, appunto, persa contro Carlos Alcaraz. È la percentuale deficitaria di prime palle di servizio messe in campo dall’italiano, troppo poco per pensare di fare partita pari con il rivale che, come non bastasse, ha pure trovato una di quelle poche giornate nelle quali non è affatto in vena di fare regali. Risultato, una partita a conti fatti mai in discussione nella quale Carlitos ha dato l’impressione di poter alzare a piacimento i giri del motore quando necessario ad assestare la spallata. In soldoni, più forte.

Jannik non è che abbia disputato un brutto match. Più semplicemente, in questa circostanza, l’avversario è riuscito con merito a fargli pesare il surplus di soluzioni a disposizione, mantenendo sempre alta la pressione in risposta che ne ha condizionato il rendimento, come si diceva poc’anzi, al servizio. Sempre interrogando i numeri, ad un certo punto, sul finire del quarto set e dunque del match, lo score recitava il doppio dei punti vincenti – i winner – a tutto vantaggio di Alcaraz: quaranta contro venti. Tantissimo.

Significa che il murciano, ontologicamente un macinatore di gioco nonché profusore di varietà, ha saputo tenere costantemente in mano le redini del gioco, nonostante la consueta consistente velocità di crociera mantenuta da Sinner nello scambio da fondo campo. Non stupisce, allora, che Carlitos abbia fatto corsa di testa dal primo all’ultimo chilometro senza mai consentire a Jannik, in apnea già in uscita dai blocchi, di mettere il naso fuori dall’acqua. Un solo break concesso (tre in tutto il torneo) e un numero di ace in doppia cifra, con picchi di velocità in battuta sopra le centotrenta miglia orarie, sono gli ulteriori aspetti che sanciscono una superiorità che nell’occasione va, forse, oltre lo score finale.

Quello che ha sorpreso, semmai, è stata la sua capacità di non incappare in quei passaggi a vuoto, veri e propri non auspicabili marchi di fabbrica, che in passato gli sono costati carissimi in diverse circostanze. Insomma, inutile girarci intorno: questo Alcaraz avaro di concessioni è fuori portata. Fortuna vuole, per Sinner e per il tennis tout court, è che le giornate perfette non siano mai la regola nello sport del diavolo e, pertanto, l’azzurro potrà pensare di tornare a far valere la sua granitica costanza già dal prossimo confronto diretto. In ragione di quanto detto, allora, una finale newyorkese obiettivamente non memorabile perché mai realmente combattuta, benché infarcita di una buona numerosità di soluzioni balistiche di prestigio. In ogni caso, lapalissiano sottolinearlo, resta pur sempre il meglio che si possa ammirare oggi e non solo per merito di questi due straordinari atleti.

Le note dolenti, infatti, giungono dal resto del seeding. Alcaraz e Sinner hanno dimostrato per l’ennesima volta di poter disporre con la pipa in bocca di tutti gli altri avversari. L’azzurro ha lasciato per strada, prima della finale, solo due set, mentre lo spagnolo ha perso il suo primo ed unico parziale del trionfale torneo solo per mano di Sinner. Morale, la differenza tra i primi due giocatori del ranking mondiale e i restanti è, purtroppo per il gioco, abissale. Considerazione, quest’ultima, sintomatica di un periodo storico non propriamente fortunato, per usare un eufemismo. A proposito. Alcaraz, con la vittoria odierna, si è preso, oltre al titolo dello Slam, anche il trono di numero uno al mondo strappandolo al rivale storico che, pertanto, abdica dopo sessantacinque settimane di regno. Sessantacinque, una delle strisce più lunghe mai registrate nell’Era Open, ad ulteriore testimonianza dell’eccezionalità del lavoro svolto dal nostro connazionale.

Se il tennis dei maschi globalmente non ride, dove un decimo del miglior Djokovic con quaranta primavere sulle spalle è ancora tabù per il novantanove per cento dei tennisti professionisti e vorrà pur dire qualcosa, quello delle donne non è che navighi in acque migliori, anzi. I maschietti, quantomeno possono godere di un campione epocale, Alcaraz, e di una rivalità, quella con Sinner, che infiamma il pubblico. Non sarà il Fedal, che nostalgia, ma pare appassionare sufficientemente la gente. Tra le donne, invece, si è nei dintorni dei minimi storici in quanto a qualità. Aryna Sabalenka, simpaticissima ma non è tipicamente una numero uno memorabile.

Tuttavia, nonostante i consueti psicodrammi, è riuscita a fare proprio il titolo degli US Open confermando il risultato di dodici mesi or sono. Amanda Anisimova, sconfitta in finale, è giocatrice più talentuosa e potenzialmente più forte di lei ma non più tardi una mancata di settimane fa rimediava un doppio sei a zero, la famigerata bicicletta, nella finale di Wimbledon al cospetto della tecnicamente rivedibile, per usare un eufemismo, Iga Swiatek. Con le restanti contendenti, da Coco Gauff in giù, che se la passano pure peggio. Insomma, tempi cupi in gonnella.

Più in generale e tornando agli uomini, ciò che spaventa l’universo tennis è l’assenza, allo stato attuale, di alternative credibili. Un silenzio tombale. Ciò, di fatto costringe gli aficionados a sperare che a Carlitos, la cui dedizione al lavoro pare non essere la stessa che anima Jannik, non passi di colpo la voglia di sacrificare oltremodo alla causa della sport i suoi vent’anni. Con i Major, quindi con il tennis che conta, l’appuntamento è rimandato a Melbourne per l’estate australiana di inizio anno. Happy Slam che, salvo auspicabili sorprese, sarà teatro dell’ennesima rivincita tra i due tiranni. Ammesso che l’off season non sparigli le carte.

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