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Un po’ Carla Fracci, un po’ Monet.. Lunga vita- e tanti auguri- a Deborah Compagnoni, di Teo Parini

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C’è stato un periodo in cui lo sci ha assunto la dimensione di intrattenimento nazionalpopolare prendendosi gli spazi che i burattinai del calcio da sempre concedono malvolentieri al resto dell’universo sportivo.

Siamo negli anni Novanta e l’esplosione mediatica della disciplina che fu di Thoeni e della valanga azzurra diretta dal compianto Mario Cotelli ha due volti meravigliosi e antitetici. Uno guascone e irrispettoso di ogni protocollo al quale dimostra di essere allergico e senza fare nulla per nasconderlo, Alberto Tomba. L’altro, invece, è archetipo di gentilezza, eleganza gestuale e sobrietà, Deborah Compagnoni. Un bulldozer, il primo; la punta del fioretto, la seconda. Una coppia che il mondo ci ha epidermicamente invidiato e che noi abbiamo esibito con appagante orgoglio.

Se di Tomba, un po’ perché abitiamo una società irrimediabilmente maschilista e un po’ perché il bolognese fu capace di fare casino anche dormendo, si è sempre detto e scritto di tutto anzi troppo e spesso pure a sproposito, decisamente meno spazio è stato riservato alla campionessa valtellinese, bormina di nascita ma cresciuta a Santa Caterina Valfurva. Sai, i giornalisti. Debby, per distacco il sorriso più bello d’Italia, di risonanza avrebbe invece dovuto goderne in quantità inesausta: tre ori in tre diverse edizioni dei giochi olimpici e si potrebbe non aggiungere altro. In mezzo a questo bendidio agonistico, in una meravigliosa storia di vita, anche tanta sfortuna, una determinazione incrollabile e altrettanta inusuale bellezza.

In un periodo storico nel quale gli attrezzi ai piedi ancora imponevano agli atleti una tecnica di base sopraffina per primeggiare – chi mastica un po’ di sci sa bene quanto l’evoluzione tecnica dei materiali abbia poi reso molto più democratica una disciplina nata selettiva come poche altre – e la bravura, di conseguenza, era questione di pochissimi eletti, Deborah Compagnoni si affermava come la massima espressione planetaria dello sci alpino. Articolazioni di cristallo e animo da leone, ha saputo conciliare, con semplicità montagnina, estetica e redditività, elevando la regina tecnica delle discipline, lo slalom gigante, a opera d’arte come nessuna prima di lei aveva nemmeno immaginato di poter fare.

Cresciuta tra scorribande nei boschi innevati sei mesi l’anno e slalom tra i larici che fanno della sua terra un angolo invidiabile di mondo, Deborah è stata, insieme, poesia e fisica, arte e meccanica, ragione e improvvisazione. Un balletto di Carla Fracci e una poesia di Gianni Rodari, un quadro di Monet e un’invenzione di Leonardo. Fuori carezza, dentro vulcano. Dici Compagnoni, infatti, e racconti la storia senza tempo di gambe indipendenti che descrivono improbabili equilibri e di piedi sensibili come mani di fata capaci di domare la neve e le mille insidie che quest’ultima nasconde nella picchiata verso la gloria. Più Euclide che Newton, una piuma capace di produrre accelerazioni vertiginose in assenza di massa. Perché la fisica, si sa, ha un limite ben preciso: non vale per i campioni.

Sfortuna, si diceva. La chirurgia sportiva nei suoi anni di gloria non era certamente la scienza quasi esatta che si ammira oggi e che risolve anche l’irrisolvibile, ma Deborah ad essa si è comunque sempre dovuta affidare ciecamente con una costanza snervante che avrebbe abbattuto un toro. Perché due ginocchia preziose come l’oro e fragili come fiocchi di neve hanno trovato il modo di segnarne una carriera che, pare impossibile considerato il palmares, avrebbe potuto essere ancora più intrisa di successi, facendo di lei la più vincente di sempre oltre che la principale esponente della bellezza applicata allo sci. Ginocchia che stanno alla valtellinese come la caviglia senza cartilagine sta a Marco Van Basten: la kryptonite degli Dei. Due ragazzi che a soli ventotto anni hanno dovuto dire basta, a testimonianza che in questo mondo c’è dell’imperfezione anche nella perfezione.

Dominatrice assoluta degli appuntamenti importanti, selezionati con cura certosina per non sovraccaricare oltremisura un fisico da tutelare e cannibalizzati con una scoraggiante (per le avversarie) puntualità, Deborah, appeso prematuramente gli scarponi al chiodo per dedicarsi alla famiglia e alle sue molteplici passioni, ha lasciando dietro di sé un vuoto che ancora oggi non è stato colmato, nonostante l’Italia non abbia mai smesso di sfornare campionesse. L’urlo di dolore di una giovanissima Compagnoni nella piana di Albertville per un legamento spezzato all’indomani del suo primo trionfo olimpico è parte indissolubile della nostra giovinezza e della nostra crescita in quanto monito e azzeccata metafora dell’altalena chiamata vita. Perché da una brutta caduta ci si può rialzare ancora più forti di prima: una, dieci, cento volte. Con l’acciaio che diventa oro.

Grazie per le emozioni, Debby, e buon compleanno.

Teo Parini

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