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Travis Meadows – “First Cigarette” (2017), by Trex Roads

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Ci sono vite che sembrano fatte per essere raccontate ed appassionare l’ascoltatore, viaggi talmente struggenti attraverso le avversità che sembrano trame di film d’autore. Rinascite e ricadute degne di romanzi drammatici, visi scavati e occhi segnati dalle sofferenze: ecco, la storia di uno dei cantautori americani più apprezzati dagli addetti ai lavori, ma quasi sconosciuti al grande pubblico, è tutto questo.
 

Travis Meadows è l’esempio vivente che non bisogna arrendersi mai e crederci sempre, anche quando il fato sembra dirti: “lascia perdere amico, è finita”.

Meadows nacque nel 1965 nel Mississippi e già all’età di due anni i suoi occhi innocenti vissero la tragedia di vedere il fratellino affogare. La vita non era ancora iniziata e già gli aveva fatto capire che non sarebbe stato un viaggio semplice. Poi il divorzio dei genitori che decisero di farlo crescere coi nonni, lasciandogli addosso quel senso di inadeguatezza e rifiuto che lo avrebbe spinto già all’età di 11 anni verso la spirale delle droghe: forse l’unico modo che sentiva per accettare il mondo e la sua vita. Lo stesso mondo che probabilmente gli crollò ancora di più addosso quando a 14 anni gli venne diagnosticato un cancro alle ossa. Una battaglia tremenda da vincere per un adolescente già provato dalla vita che gli costò “solamente” la gamba destra al di sotto del ginocchio.

Durante questo periodo suonò la batteria e la chitarra per varie band blues locali, cullando in fondo alla sua anima il sogno un giorno di poter diventare un musicista di professione.

La prima svolta della sua vita, il primo segnale di luce lo ebbe a 20 anni quando trovò Dio e divenne dapprima un missionario, poi un predicatore cristiano. Una forte vocazione che lo spinse a viaggiare tanto e a predicare il verbo per 17 lunghi anni.

Probabilmente la vocazione più forte, quella che lo chiamava da sempre, era quella della musica che lo spinse a Nashville, la culla della musica americana, dove abbandonò i voti e cercò quella fortuna che per anni gli aveva chiuso la porta in faccia.

A Nashville si fece notare, aveva un talento narrativo da cantautore vero, come dimostra il suo debutto discografico ufficiale My Life 101 del 2007 con Universal e le sue prime collaborazioni.

Un disco che è molto influenzato dal suono del primo Springsteen, alcuni pezzi davvero belli, grezzi, ma incisivi.

 

Ascoltate Play With Fire la voce è differente molto più sofferente di quella del Boss, ma la musica è quel rock americano a metà fra il radiofonico e il cantautoriale che gli fanno assaporare il successo. Il suo sogno stava avverandosi, ma quel successo si portò dietro tutto il pacchetto: droga e alcol, la spirale tornò ad avvolgerlo, portandolo alla depressione e a numerosissimi viaggi in centri specializzati. Le sofferenze dell’anima, di quell’adolescenza travagliata, chiedevano ancora un conto salatissimo.

Il 2010 sarà l’anno fondamentale: sobrietà raggiunta e mantenuta.

Durante il suo ultimo percorso riabilitativo il suo terapeuta gli aveva dato il consiglio di tenere un diario del viaggio, appunti della sua difficile storia verso la sobrietà. Proprio questo diario sarà la fonte dei testi del suo nuovo album, anzi del suo debutto ufficiale della sua nuova vita nel 2011: Killing Uncle Buzzy.

Il disco è uno struggente viaggio dell’uomo in cerca di salvezza e redenzione, un’arrampicata verso la vita dopo essere piombato in una spirale di morte e depressione.

Un disco molto più crudo e asciutto del precedente, più orientato verso il country folk d’autore che verso il rock. La bellissima ballata che apre il disco Minefield sembra più provenire da un novello Townes Van Zandt che da un novello Springsteen, ma il carattere della sua voce unica lo rende originale e gli apre ancora di più le porte del music business.

Già dal 2009 i Lynyrd Skynyrd usarono un suo pezzo per un loro disco di cui venne anche la title-track, God & Guns. Anche i loro eredi Blackberry Smoke usarono suoi pezzi per i loro dischi, come per esempio la splendida Medicated My Mind presente in Find A Light (2018).

Ora le sua canzoni scalavano anche le classifiche in mano a pezzi da novanta del country di Nashville come Eric Church e Frankie Ballard, e tanti altri. Tantissimi altri.

Uno di questi, Jake Owen, reinterpreta la stupenda What We Ain’t Got, presente nel disco e arriva al 14esimo posto delle chart di settore: il sogno americano era reale.

Era diventato talmente popolare a Nashville che la rivista Rolling Stone arrivò a definirlo the best badass songwriter in Nashville.

Un successo però che è più presso gli addetti ai lavori che nel pubblico di massa e dopo aver fatto scadere il suo contratto con la Universal nel 2013, pubblica per l’etichetta indipendente Kobalt Music uno stupendo EP di 7 pezzi, Old Ghosts And Unfinished Business.

Un disco ancora più asciutto e diretto del precedente: un country triste ed emozionante che avrebbero reso orgogliosi il grande Townes e Guy Clark, probabilmente i due artisti più vicini al nostro per feeling musicale. Scusate se è poco.

Ascoltate la ballata Good Country People: un meraviglioso affresco roots, violini, banjo, ma anche svisate elettriche. Stupenda.

A 7 anni dalla completa sobrietà, nel 2017, ottiene un contratto con un’altra etichetta indipendente la Blaster Records e avvalendosi di una produzione che oserei definire ai limiti della perfezione, sforna questo First Cigarette, raggiungendo una maturità artistica invidiabile. Un artista di nicchia, che non raggiungerà mai notorietà planetaria, forse nemmeno gli interessa, ma è sicuro riferimento per la musica country folk di qualità.

Un disco che mette in risalto, più che le canzoni stesse, la sua abilità nel raccontarsi attraverso di esse in maniera cruda e credibile. Un uomo che non ha ancora dimenticato il suo passato, come potrebbe, ma che finalmente riesce a vedere filtrare raggi di luce, assaporandone il calore sulla pelle. Un narratore come ne esistono pochi oggi, una voce che sembra nata per assecondare questa sua abilità di storyteller, entrandoci nell’anima con parole semplici ed efficaci.

E’ un disco velato di malinconia per la giovinezza passata, come in Pray for Jungleland. Stupendo affresco con dedica nemmeno tanto velata a Springsteen, dove il mondo ruotava attorno al venerdì sera, alle ragazze e allo stereo che sparava le sue canzoni, ma piena anche di consigli a chi, come lui, ha e avrà una vita difficile.

La title track è un perfetto esempio di questo, dove l’autore confessa che col tempo si impara ad apprezzare i piccoli piaceri della vita quando ci sono, un po’ come la prima sigaretta appena svegli al mattino.

L’autore non ci sta dicendo che non ha rimpianti per ciò che è stato e basta ascoltare la prima canzone Sideways  per accorgercene: “richiudere tutte le porte che non vorrebbe aver mai aperto e disimparare tutte le cose che non vorrebbe aver mai conosciuto”, ma accettare anche gli errori e avere sempre fame, come in Hungry, aiuta ad andare avanti, aiuta a credere che sia possibile superare tutto e avere il proprio posto in questo mondo.

Meadows non si ferma qui e scrive un inno ai perdenti, agli sfavoriti di questo mondo, agli Underdogs che nonostante tutto brillano come stelle rotte, nonostante le cicatrici e i cuori solitari: un inno che sarà di sicuro il culmine delle sue esibizioni live.

Il lavoro, intenso ed emozionante, si chiude con una fantastica ode al rock and roll: Long Live Cool. Probabilmente la canzone più solare e leggera del disco, ma che serviva come sfogo per le intense emozioni che un album pressoché perfetto ci ha regalato, tant’è che quando si finisce di ascoltarlo ci si chiede per quale strana congiunzione astrale questo disco non sia stato dovutamente celebrato come avrebbe meritato.

Un gioiello vero, anche nei piccoli dettagli: come il lasciare fra una canzone e l’altra, brevi intermezzi strumentali senza silenzi, che lo rendono un vero e proprio romanzo musicale, un racconto tutto d’un fiato sulla potenza della vita sia nei momenti bui che in quelli positivi.

Un autore tremendamente simile nelle sue dinamiche artistiche al già citato Townes Van Zandt, un artista che non ha raccolto per ciò che meritava, ma che ci ha regalato (e speriamo Travis Meadows lo faccia ancora per molto) perle di assoluto valore artistico e narrativo. Due poeti così simili e così veri.

 

Come dicevo all’inizio, una incredibile storia, fatta di cadute e risalite, senza mai arrendersi, narrata con una sincerità e un’abilità disarmante.

Travis Meadows e la sua musica sono lontani anni luce dalla sfavillante Nashville patinata, ma se cercate sentimento, anima e umanità e date importanza alla qualità delle canzoni, è l’artista che stavate cercando. Non vi pentirete di averlo scoperto e anzi vi sembrerà strano non averlo fatto prima.

Buon ascolto,

Claudio Trezzani by Trex Roads  www.trexroads.altervista.org

(nel blog trovate la versione inglese di questo articolo a questo link: https://trexroads.altervista.org/first-cigarette-travis-meadows-2017-english/

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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