Tenemos un problema, Carlitos (Alcaraz)? Di Teo Parini

A fargli le pulci, ma senza la pretesa di sostituirci al lavoro del suo formidabile team, ci sarebbe anche da evidenziare una lieve ma potenzialmente significativa problematica tecnica lasciata a metà.

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Qualunque discorso riguardante Carlos Alcaraz non può prescindere da un aspetto. È un classe 2003 ed è nato ad agosto, ciò significa che non ha ancora compiuto ventuno anni. Per intenderci, Sinner lo precede di ventiquattro mesi che a quell’età fanno tutta la differenza del mondo e non serve certo spiegare il perché. Tuttavia, altri due concetti non possono essere trascurati. Il primo è che dalla strepitosa vittoria di Wimbledon nel luglio scorso, quando finì per abbattere Djokovic dove nemmeno Federer fu in grado, Carlitos non ha più vinto un torneo e negli ultimi sette disputati non ha nemmeno raggiunto una finale. In mezzo, due Slam mal giocati, New York 2023 e Melbourne 2024, e le Finals di Torino dove il rendimento è stato, se possibile, anche peggiore. Il secondo è dato dal confronto proprio con Sinner, oggi il tennista più forte al mondo: l’italiano, come si chiede ad un campione, ad ogni torneo si presenta con una novità, fosse anche impercettibile ma c’è. Alcaraz, invece, a dire involuto è forse blasfemia ma bloccato, in questo momento, lo è di sicuro. La domanda che sorge spontanea è: perché?

Intanto, la conferma dell’assioma che sarà banale ma a molti sembra non entrare mai in testa. Confermarsi al vertice in una disciplina così esigente è sempre un casino bestiale. Anche se sei Alcaraz, quindi uno che ha geni e genialità per fare epoca. Più di Sinner, più di Medvedev, più di Djokovic che, noncurante di quelli più talentuosi di lui, sono vent’anni che fissa gli obiettivi e non perde praticamente mai quando conta. Può essere, quindi, che il post Wimbledon abbia fatto più male che bene ad Alcaraz. Per esempio, nel caso avesse malauguratamente pensato, sollevando il trofeo più importante al mondo, di poter rivincere a ogni latitudine per diritto di cromosomi. Non succedeva al McEnroe del 1984, la definizione plastica di magnificenza, figuriamoci agli altri. Più si vince e più si deve lavorare duramente, affinché la fame non abbia di che calare, una legge non scritta del gioco. Perché in un mondo di squali, che venderebbero la mamma per un quindici, il contrario significherebbe morte certa, anche per lo spagnolo che gioca a tennis infinitamente meglio dei suoi rivali.

Infatti, per tornare alla più stretta attualità, è bastato il lungagnone Jarry, al solito tignoso quando mette piede sulla terra battuta sudamericana anche se poi capace di perdere all’indomani con il non trascendentale Diaz Acosta, per inceppare un meccanismo evidentemente poco oliato di questi tempi. Così, nemmeno l’aver ritrovato i campi rossi, sui quali in linea teorica dovrebbe avere ancora più margine, ha invertito la brutta tendenza con una serie di indizi che sommati sono prossimi a fare una prova. Carlitos, mi sa che abbiamo un problema. Tuttavia, Juan Carlos Ferrero al box dovrebbe essere una garanzia. Anzi, lo è. Questo perché, con lui, Alcaraz trova al fianco la sua antitesi più marcata; uno che da giocatore ha spremuto alla carriera il centouno per cento di quel che ci fosse da spremere, grazie ad abnegazione e intelligenza a compensare un talento, diciamo, così così. Tanto da portare un tennis oggettivamente povero di qualità fino alla prima posizione del ranking mondiale. Insomma, in quanto a cultura del lavoro tennistica, Carlitos ha per coach un docente universitario. Il problema, semmai, è la voglia di seguirlo. Lo dicemmo in tempi non sospetti, soprattutto nelle giornate di gloria, in tal senso Alcaraz non è Sinner, uno che sprizza dedizione maniacale da tutti i pori.

Poi, come spesso accade agli uomini di maggior talento, la tattica non è tipicamente il suo punto forte. L’impressione è che troppo spesso i suoi match non seguano un copione preparato a monte ma si compongano della sequenza di colpi dettati più dall’istinto che dalla ragione e, ancora peggio, slegati dalle peculiarità dell’avversario. E se inizialmente l’effetto sorpresa, messo in atto da uno che con la racchetta potrebbe fare qualsiasi cosa da quanto educata è la mano che la governa, ha fatto sfracelli, ecco che quelli bravi e sagaci hanno messo a punto le contromosse del caso, così da non farsi più abbindolare oltremodo dai suoi mille trucchi. I Sinner e i Djokovic non perdonano i passaggi a vuoto altrui nel corso dei match perché meravigliosi depositari della regolarità e della costanza, che stanno al tennis come la sciolina sta alla discesa libera o la pressione degli pneumatici all’automobilismo: vitale. Questa sua estemporaneità tattica fa talvolta scopa con quella di rendimento, il che significa, appunto, passaggi a vuoto. Una kryptonite e, così, può bastare un buon Jarry per capitalizzare l’omaggio e passare all’incasso. Figuriamoci un Sinner, la cui capacità di tenere sempre alti i giri del motore è robotica, per non parlare di Djokovic che ha fatto del rifiuto della sconfitta un’opera d’arte moderna.

A fargli le pulci, ma senza la pretesa di sostituirci al lavoro del suo formidabile team, ci sarebbe anche da evidenziare una lieve ma potenzialmente significativa problematica tecnica lasciata a metà. Ricordando sempre di avere di fronte un tennista di quelli che nascono ogni morte di Papa, quello che non passa inosservato è il mancato miglioramento in questi primissimi anni di carriera di un colpo di capitale importanza per l’economia del gioco, il servizio. Se n’è immediatamente accorto anche Andy Roddick, uno che, oltre ad essere notoriamente una mente brillante, con quel colpo ha letteralmente fatto sfracelli. Un parere autorevole decisamente più del nostro. L’ex numero uno al mondo, nonché ultimo statunitense a vincere un Major, ha sollevato la questione nei seguenti termini. L’involuzione in quanto a velocità della prima palla, che mediamente appare financo diminuita rispetto a un anno fa, e la scarsa varietà nelle scelte. Egemonizzate, queste ultime, dal ‘kick’ mancino che, seppur formidabile, non è più né una sorpresa né una fucina di punti rapidi. Sempre per Roddick, poi, al di là della velocità che dice tanto di una battuta ma non tutto – del resto Federer difficilmente passava i duecento orari ma di punti col servizio ne faceva in quantità industriale – la meccanica di impatto non proprio ortodossa è tale da produrre una palla di relativamente ‘facile’ gestione per i califfi della risposta. Zverev, agli ultimi Australian Open, lo ha estromesso dal torneo sconfiggendolo al termine di un match nel quale gli ha strappato per ben sette volte il servizio. Per dare l’idea, Sinner, nello stesso torneo, ha perso il suo primo turno di battuta solo in finale. Una bella differenza di rendimento con il fondamentale di inizio gioco.

Morale, Alcaraz non era invincibile un anno fa e non è diventato un giocatore normale adesso. Meglio essere chiari per non finire nel calderone poco edificante dei sedicenti addetti ai lavori che a ogni risultato mutano il loro pensiero. Carlitos ha tutte le qualità per essere un fattore dominante di questa generazione ma, come da normalità in ambito sportivo, ha da risolvere un grattacapo. Probabilmente il primo della carriera, di sicuro non l’ultimo. Detta della volontà, che lo stesso Ferrero ha velatamente messo in dubbio almeno nell’ultimo periodo, e della necessità di continuare ad aggiungere frecce nella faretra come si conviene per un fuoriclasse di tale risma, sarà interessante vedere gli effetti che sortiranno le recenti scoppole (gli ultimi match importanti li ha persi tutti) su un ragazzo consapevole di possedere potenzialità teoricamente illimitate. Egoisticamente parlando, noi di TicinoNotizie.it cultori della tirannia della bellezza, ci auguriamo che Carlitos ritrovi in fretta la quadratura del cerchio. Ci ha abituato bene, riuscendo nell’impresa di rendere l’addio di Federer almeno un po’ meno doloroso, e, con quel maledetto di un Kyrgios che fa di tutto pur di non giocare a tennis, abbiamo un disperato bisogno di lui. Di più, è il tennis che ne ha.

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