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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – “Texas Flood” (1983) by Trex Roads

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Io adoro il Texas e la sua passione, quasi insana, per la musica. L’errore che si commette pensando al Lone Star State, però, è di pensare che lo stile musicale che si ama e si suona qui è solo country. Ecco, non è così e oggi infatti la Trex Road virerà sulle strade del blues, ma quelle del passato, quelle dei primi anni ’80.
In Texas sono nati musicisti e movimenti fondamentali per il rock, il jazz e anche per il blues, qui la musica si vive ogni secondo e ad Austin ci sono locali e festival che sparano musica di qualità già dal mattino : è la patria della live music. Il blues deve al Texas la sua rinascita all’inizio degli anni ’80, passò dall’essere un genere dimenticato e fuori moda, ad invadere nuovamente le classifiche e il merito fu di di un chitarrista nativo di Dallas ma che mosse i propri passi musicali ad Austin: Stevie Ray Vaughan.

Stevie Ray Vaughan iniziò la sua carriera alla fine degli anni ’70, deliziando le platee dei live club di Austin, con il suo blues elettrico e le sue mani velocissime. Un nome che cominciò a circolare fra gli addetti ai lavori, che sempre più numerosi si ritrovavano nel pubblico per assistere allo show più richiesto in città. SRV e la sua band i Double Trouble, nome ispirato da una canzone di Otis Rush, erano in rampa di lancio e la scintilla che li fece esplodere definitivamente fu dapprima fornita da Mick Jagger e poi da David Bowie, due nomi davvero notevoli per un ragazzo che aveva appena cominciato a farsi largo nel music business.
Il leader dei Rolling Stones lo notò e rimase folgorato dal sound così dannatamente blues ma così dannatamente originale e suggerì al produttore Jerry Wrexler il suo nome e questo gli valse la partecipazione al celebre Festival Jazz di Montreux del 1982. Fu un’esperienza negativa, il pub-blico del festival era molto conservatore e poco incline alle sonorità blues rock del chitarrista texano e lo subissò di fischi e insulti. Però talvolta dal negativo nasce qualcosa di buono e fu così che venne notato da David Bowie che volle assolutamente quella chitarra sul suo disco in lavorazione : Let’s Dance. Una collaborazione fruttuosa che gli valse la presenza su 6 degli 8 brani presenti nel disco e un accordo per fare parte del tour mondiale. All’ultimo momento Stevie Ray ci ripensò e decise di prendere in mano la sua carriera e la sua musica : non sarebbe stato più la spalla di nessuno e voleva mostrare al mondo che il blues rock aveva un nuovo re.
Il leggendario produttore John Hammond non si fece pregare e grazie a Jackson Browne che gli permise di utilizzare gratuitamente i suoi studios, e alla Epic Records, nel 1983 venne dato alle stampe questo suo esordio discografico, Texas Flood e le classifiche musicali americani finalmente tornarono ad interessarsi di blues, grazie a questo ragazzo texano.

Il disco è composto da 10 brani, di cui 6 sono a sua firma mentre le restanti 4 sono cover ma suonate con tanta passione e talento che diventano sue a tutti gli effetti per il grande pubblico.
Le influenze che si percepiscono ascoltando questo eccezionale esordio sono tante e tutte mixate in maniera personale, il sound di BB King, Albert King e Buddy Guy, quel blues elettrico che ha avuto in Chicago la sua capitale, ma anche e soprattutto Jimi Hendrix, del quale SRV pare essere erede credibile e naturale. Il sound è molto più orientato al blues classico e al rock and roll, rispetto al mancino di Seattle, ma il talento, quell’improvvisazione poetica e furiosa sembrano essere le stesse che sconvolsero il mondo alla fine degli anni sessanta.
Il lavoro parte a razzo e le radio e le classifiche che avevano ignorato quel genere obsoleto, vengono colpite in piena faccia da Love Struck Baby, un cortissimo blues con tanto rock and roll, sor-retto dal suono celestiale della sua chitarra; la sua voce non è di qualità eccelsa ma si adatta alla perfezione al suo suono che da Austin arriva al Mississippi passando per le dita di Chuck Berry.

L’antipasto lascia in bocca quella voglia di continuare l’ascolto e dopo un classico ne arriva un altro: Pride and Joy è un blues dal groove indimenticabile, di quelli che i Padri del genere suonavano nei juke joint, avvolgente suadente e con quella voglia di ballare che ti attraversa la spina dorsale. La chitarra ha un suono mai sentito, veloce, ma mai banale e l’assolo taglia in due l’aria. Il mondo del blues non sarebbe più stato lo stesso e basta sentire la cover di un pezzo classico di Larry Davis che darà il titolo al disco per capire che questo ragazzo diventerà l’ambasciatore di un genere pronto a lasciare di nuovo il segno nella cultura americana. Un blues trascinante, lungo, malinconico e suadente, come i grandi del passato, il suono della sua chitarra penetra l’anima e la sconvolge, il suo tocco ha quella magia che mancava al blues da tanto tempo e che gli ha per-messo di attraversare il peggior decennio per la musica suonata per davvero (gli anni ’80, ndr).
Visto che il suono lo richiama spesso, Vaughan con Tell Me scomoda il grande Howlin’ Wolf e la sua versione raggiunge e forse supera l’originale, divertente scanzonato ma dannatamente graffiante, breve, ma mai banale e poi l’assolo che ti cattura, ti rapisce e non ti molla più. Solo Hendrix aveva questa capacità di suonare un blues classico e di modernizzarlo senza stravolgerlo.
Ora il suono della chitarra ha rotto gli argini e come una pioggia torrenziale devasta gli speaker, Testify è un’emozionante cavalcata di blues strumentale, senza voce, ma chi se ne accorge dav-vero? La mente è impegnata ad immaginare le sue dita volare sulla sei corde e la ritmica seguire il suo ritmo indiavolato, un sapore jazzistico, inventiva libera sì, ma mai debordante o noiosa, anzi!
Il brano è il prologo ad un altro pezzo solo chitarra e ritmica, Rude Mood, ancora più devastante. Una cascata elettrica di emozioni a raffica, una dimostrazione di talento non fine a sé stesso, un pezzo che diverrà caposaldo delle sue esibizioni live. Una sequela di assoli che avrebbero potuto far deragliare la melodia e il senso della canzone, ma il talento di SRV è unico anche per questo: l’equilibrio non manca mai e non si smette di aver voglia di sentire dove lo porterà la sua velocità e la sua innata maestria.
Altra cover, altro piccolo gioiello: Mary Had a Little Lamb di Buddy Guy, pezzo leggendario che Vaughan onora regalandoci una prestazione maiuscola, si rallenta sì, ma la melodia che le sue dita ci regalano, ci fanno capire come le sue dita non fossero solo ultraveloci ma anche un armonioso connubio di melodia e talento. L’assolo è magia pura e vorresti non finisse mai.
Dirty Pool è un blues d’annata, lento e sexy, ma non banale. Una cascata di note geniali che sono il prologo al finale di un disco incredibile. Emozionante e triste, un eccezionale pezzo d’altri tempi. Forse la prestazione vocale migliore del disco, ma è la chitarra che ci travolge come un fiume in piena, la pelle d’oca è obbligatoria mentre ci immaginiamo queste dita volare sui tasti.
L’ideale seconda parte di Pride and Joy, stesso approccio, stesso sentimento, è I’m Cryin’, altro groove irresistibile, quel sapore di blues da balera, fumo e balli scatenati.
La chiusura del disco è una dedicata alla moglie di SRV, Lenny, un lungo pezzo strumentale dall’appeal romantico, suadente e dolce che dal vivo diventerà acustico e si protrarrà spesso oltre i 10 minuti. Il pezzo è la dimostrazione di come il talento di Stevie, gli permettesse di padroneggiare la velocità, non debordando mai nell’esagerato, ma anche il lento, stupendo per intensità ed espressività. Un brano che nella sua semplicità e dolcezza, è una fantastica dichiarazione d’amore per la moglie e per la musica blues, di cui era diventato l’esponente più famoso al mondo, dopo un solo disco.
Un album che non ottenne subito il botto commerciale, ma permise a Stevie Ray Vaughan di cominciare a stupire il mondo con le sue tournée e piano piano quel mondo si accorse che questo fumigante chitarrista blues non era soltanto bravo, ma era anche unico, uno di quei musicisti che nascono ogni 50 anni, uno di quelli che poteva tranquillamente sedersi al tavolo degli eletti con Jimi e Duane Allman.
Da quel momento l’ascesa fu inarrestabile, altri 5 album fino all’ultimo nel 1991, fino al suo incontro con un destino fatale che lo accomuna anche in questo, ahimè, ai due sopracitati: il 27 agosto 1990, dopo un super concerto all’Alpine Valley Music Theatre di Alpine Valley in Wisconsin, assieme a Eric Clapton, Buddy Guy e Robert Cray, il chitarrista prese il posto sull’elicottero di Clapton, perchè voleva essere il primo a rientrare in albergo, troppa stanchezza. Il velivolo a causa della fitta nebbia e della scarsa esperienza del pilota in situazioni critiche, si schiantò poco dopo il decollo contro una collina, oltre a Stevie Ray Vaughan, morirono nell’incidente il pilota e due membri dello staff di Clapton. Una tragedia incredibile che, come tante altre nella storia della musica, ci tolse la possibilità di continuare ad apprezzare uno dei più grandi talenti blues mai visti che con questo disco aveva appena iniziato a stupire il mondo.
Se non lo conoscete e amate rock and roll e blues, oppure solo la musica di qualità, andate immediatamente a fare ammenda e inginocchiatevi anche voi adoranti ai piedi di uno dei più fantastici chitarristi che il mondo abbia mai visto e che ora con la sua statua domina lo skyline di Austin, Texas, come i pionieri del passato.
 

Buon ascolto,
Claudio Trezzani by Trex Roads www.trexroads.altervista.org
(nel blog trovate la versione inglese di questo articolo a questo link :

 

“Texas Flood” – Stevie Ray Vaughan & Double Trouble (1983) [english]

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