Riprendiamo il discorso elettorale americano a bocce ferme, sempre dalla prospettiva d’Oltreoceano, dove mi trovo (in questo momento a San Antonio, Texas).
La vittoria di Donald Trump e la sua seconda conquista della Casa Bianca sono state nette e senza sbavature. Altro che “testa a testa” tra i due candidati! Kamala Harris ha vinto solo dove doveva vincere, indipendentemente dal suo nome e cognome o da quello di qualsiasi altro candidato democratico.
Vale a dire gli stati della fascia del Pacifico, California in primis, e quelli – sul lato opposto – del New England, più Washington DC e New York. Insomma, la Harris ha vinto dove avrebbe vinto anche il suo cocker, perchè in quegli stati non c’era storia. Ma la verità vera è che non è lei ad avere perso le elezioni, dimostrando tra l’altro una fastidiosa sufficienza nel comportamento rispetto all’avversario, che ha contribuito a condannarla alla sconfitta. La verità vera è che è stato Donald Trump a vincerle a tutto tondo, senza discussione.
La politica, in tutto il mondo, ad ogni latitudine, si fa con i numeri: sono solo quelli che contano. Ma i numeri della politica bisogna saperli leggere, e questa è tutta un’altra storia.
Trump ha vinto in tutti gli “swing state”: quelli dove l’imprevedibilità dell’elettorato fa parte della storia americana. Questo vuol dire che è riuscito a portare a sè il fumoso limbo degli elettori “indecisi”. Non solo.
La forza del neo presidente – che ha migliorato la propria performance in qualcosa come 2300 contee in tutto il Paese, rispetto sia al 2020 che al 2016 – è dimostrata dal fatto che è riuscito anche a tirarsi dietro tutto il partito repubblicano, rimasto compatto e sempre vicino al suo leader.
Cosa che non è assolutamente successa sul fronte opposto, con un partito democratico spaccato all’interno come una mela sulla scelta, fatta in tutta fretta e senza un regolare (e salutare, se non addirittura salvifico) dibattito pubblico alla convention di agosto. La compattezza del partito repubblicano, grazie al suo “timoniere”, ha consentito di riportarsi a casa la fondamentale maggioranza al Senato, decisiva per l’agenda programmatica del presidente.
Ora, ai democratici non resta che leccarsi le ferite e cercare una identità che hanno drammaticamente perduto, anche sulla scia di quella terrificante “woke culture” – di cui il clan Clinton-Obama-Harris è l’anima politica – che stava minando alla base i fondamenti della pluricentenaria democrazia americana. Una nuova identità dunque. Che sicuramente andrà cercata lontano dalle Kamala Harris di turno.
Massimo Colombo