A distanza di anni, noi, cresciuti con la radiolina attaccata alle orecchie e la certezza che allo stadio si andasse solo la domenica pomeriggio, abbiamo l’esigenza di credere che la sua maledetta caviglia non fu messa fuori uso dai modi poco ortodossi dei difensori brutali dell’epoca o da chirurghi chiamati a metterci una pezza non proprio all’altezza. Farebbe più male. Meglio pensare, infatti, che Madre Natura con quei centonovanta centimetri di meraviglia vitruviana avesse voluto ricordare agli uomini che la perfezione in Terra non esiste. Nemmeno ad essere Marco Van Basten. Superman, sì, ma anche nella kryptonite sotto forma di cartilagine. Così, la parabola agonistica dell’attaccante definito da Maradona come il migliore di sempre si è eclissata anzitempo, più o meno intorno ai ventisette anni.
Molto prima del giorno dei saluti – Marco, di fatto, aveva già smesso da tempo – quelli della giacca di renna su camicia rosa confetto e delle lacrime mai così appropriate di San Siro in una fottuta sera d’estate. Tuttavia, finché c’è stato, fortunatamente scegliendo l’Italia quale teatro, ha saputo elevare l’asticella del gioco su piani inesplorati. Viso da eterno adolescente, linee da ballerino classico, leggerezza anti-newtoniana a far da contesto e da contrasto alla formidabile macchina da gol che ha trascinato il Milan e l’Olanda in cima al mondo. Negli anni Novanta, tra le poche certezze di un mondo in procinto di stravolgere sé stesso, la più granitica in ambito calcistico fu proprio quella di vedere il suo nome sul tabellino. Al pari di una vittoria di Tomba, tra i pali stretti dello slalom, o di una schiacciata messa a terra da Bernardi. Marco, uomo chiamato sentenza.
Ma se la storia del soccer è infarcita di goleador implacabili, la differenza strutturale tra lui e gli altri non fu il ‘quanto’ bensì il ‘come’. Dotato di una tecnica che anni più tardi avrebbero definito da PlayStation, e che al tempo gli valse l’appellativo di Cigno di Utrecht, la nostalgia che evoca Van Basten, con il calcio ridotto a brandelli e che fa del Ronaldo portoghese un campione, è legata alla capacità di prodursi in marcature mai banali, mai uguali a quelle già viste. Due piedi alla stregua di pennelli a dare del tu al pallone, ariete nell’uso della testa, fiuto e freddezza. Uno di quelli che, se proprio la disciplina non l’hanno inventata, hanno segnato, comunque, un prima e un dopo. Spartiacque che se l’Unesco avesse voglia di occuparsi di calcio lo includerebbe tra i patrimoni dell’umanità.
Nonostante quella caviglia a limitarlo, anzi, forse anche per quella. Perché, sempre per i dottori, l’articolazione imperfetta non sarebbe stata buona nemmeno per fare l’impiegato d’ufficio, figuriamoci il calciatore. Chiamato a far di conto con i Vierchowod, i Ferri e i Bruno, detto a beneficio di coloro che hanno una vaga idea di cosa volesse dire affrontare a viso aperto quelle difese, su quei campi di patate e con arbitri di stampo anglosassone. Così, dici Van Basten e il ricordo corre svelto a quella notte iconica del Bernabeu, il tempio, quando il Milan, che si appresta a prendersi il mondo con la futuristica direzione del vate Sacchi in panchina, torna a fare visita al Real Madrid. Quello della filastrocca Buyo, Chendo, Gordillo, Camacho e della coppia-gol Butragueno-Sanchez.
Proprio il messicano porta in vantaggio i madrileni, rete festeggiata al solito con una capriola delle sue, e, vuoi la sfortuna e pure un arbitraggio che a definire campanilistico gli si fa un complimento, tutto faceva presagire ad una serata storta da dimenticare. Finché, con un pugno di lancette ancora sul cronometro e una beffarda sconfitta in procinto di realizzarsi, Virdis, nelle vesti inconsuete dell’ala, dalla tre quarti di destra scodella un pallone morbido, troppo morbido, verso l’area di rigore. Uno di quei cross prevedibili che usualmente fanno la gioia dei difensori più che quella degli attaccanti. Van Basten escluso.
Marco, quando vede partire la palla dopo averla chiamata alzando il braccio, è in posizione troppo avanzata per gestire un traversone indirizzato all’altezza del limite dei sedici metri. Lento, per di più, che significa non poterne sfruttare l’energia cinetica ai minimi sindacali. Marco, allora, davanti alla linea della sfera si produce in un volo d’angelo – come lo definì Pizzul in telecronaca – mezzo a ritroso e con una frustata di testa impone alla palla una direttrice che punta dritta verso il sette. Una prodezza che nemmeno Euclide con i suoi teoremi saprebbe catalogare. Palla che, ad aggiungere epica ulteriore, si infrange sulla traversa per poi impattare sulla schiena dell’incolpevole Buyo, prima di varcare la linea di rete. É la marcatura che cambia il corso degli eventi, perché ciò che verrà da lì a breve è storia. La genesi del mito.
Se abbiano la necessità di ricordare ai più giovani chi è stato Marco Van Basten è perché, proprio oggi, l’olandese taglia il traguardo dei suoi primi sessant’anni, cifra tonda. Per chi fa dello sport una delle ragioni di vita, il Cigno – come tutti i campioni, del resto – a suon di domeniche è finito per diventare uno di famiglia, un pezzetto della nostra crescita. Qualcuno in grado di dare una collocazione temporale ai nostri ricordi. Un privilegio esserci stati. Più che un’iperbole, la definizione stessa di sport quale insostituibile tassello delle nostre giornate. Con il calcio che, quando si impegna, riesce ad essere una disciplina meravigliosa.
Tanti auguri, Marco.