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Rugby, vento Azzurro: è un momento magico per la palla ovale in Italia- di Teo Parini

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Il tempo in sovrimpressione diventa rosso per un motivo preciso: gli ottanta minuti di gioco effettivo sono scaduti e l’ultima azione di gioco dev’essere completata. Qualora il punteggio fosse ancora in bilico, ciò rappresenta la chiamata senza appello per chi ha il possesso dell’ovale.

Sabato al Franchi, dopo una partita per lunghi tratti dominata dall’Italia, forse come non mai versione marea azzurra, Neville segna la meta che riporta a meno uno nello score la sua compagine e, regolamento canta, gli Aussie hanno diritto al calcio di trasformazione che può valere il match, con buona pace di quel cronometro ormai rosso. Donaldson si prende tutti gli attimi che servono, posiziona con cura certosina la palla sul terreno e, come il saltatore in alto, misura a ritroso i passi per la rincorsa. Noi in campo non c’eravamo ma possiamo immaginare cosa passasse per la mente dei protagonisti durante la gittata verso i pali della pedata che è spartiacque tra sconfitta e vittoria. Da una parte chi ha tutto da perdere; dall’altra chi vede fermo in stazione il treno per la gloria. Non uno qualsiasi, quello che passa una volta sola e, per una volta, è tricolore.
Un salto all’indietro.
L’Italia del rugby sta vivendo un incubo che pare essere senza fine, non vince una partita che conta ormai da anni al punto che l’establishment della disciplina si interroga sull’opportunità di ripensare alla legittimità della nostra partecipazione al Sei Nazioni, un diritto conquistato con sudore e merito ormai due decadi prima. Con alle spalle trentasei sconfitte di fila nella massima competizione europea, il 19 marzo gli azzurri fanno visita al Galles, trasferta che salvo miracoli è sinonimo di mattanza. Senza perdersi in un racconto che è già abbondantemente storia – quello del coast to coast di Capuozzo che scarta avversari come birilli e scarica a Padovani il più facile dei palloni da schiacciare in metà – la nazionale guidata da Crowley espugna il Millennium Stadium. Un evento così straordinario che, unito al lavoro di un allenatore in sella da nemmeno un anno, agli osservatori più attenti fa ottimisticamente pensare ad un turning point. Nessuno osava dirlo, ma il sospetto che quel pomeriggio di gioia e commozione potesse essere ricordato in futuro come nuova genesi era tutt’altro che peregrino.
Crowley, campione del mondo con la Nuova Zelanda nel 1987, ha preso in mano una squadra allo sbando, cartina al tornasole di una federazione che lo era altrettanto, e gli ha dato un’identità riconoscibile. Dev’essere stato parecchio convincente perché ragazzi abulici fino a poco tempo prima si sono dimostrati disponibili fin da subito, per citare lo stesso allenatore, a morire per la causa. Tanto che la straripante vittoria ottenuta contro Samoa una settimana fa aveva spinto anche gli addetti ai lavori più cauti a pronosticare un incontro da onorevole sconfitta, che nel rugby è alla stregua di una mezza vittoria, proprio contro gli australiani, parte del gotha dell’emisfero sud. Il rugby è crudo, non si improvvisa nulla e, soprattutto, finisce sempre per vincere il più bravo. Non c’è melina in una battaglia di logoramento che mette a nudo le debolezze, fenditure che con i minuti diventano voragini entro le quali imperversano i più virtuosi a discapito degli sconfitti. Forza bruta e fosforo, insieme, perché nel rugby la competenza tecnica e quella del pensiero sono pilastri importanti almeno quanto i bicipiti d’acciaio. Tutto ciò per dire che costruire una squadra competitiva a partire da un cumulo di macerie è impresa titanica che può richiedere generazioni. Per sostenere con cognizione di causa di avercela fatta, quindi, serve unire una miriade di puntini, indizi congiunti che fanno una prova.
Minuto ottanta, dunque.
Fino a quell’istante, tre mete azzurre segnate a referto al culmine di un gioco alla mano encomiabile e, ciò che più importa, la sensazione tangibile di aver messo a punto i capisaldi del gioco, le certezze alle quali ancorarsi nei momenti di difficoltà. Insomma, i ragionamenti che per solito fanno i grandi, gli indizi di cui sopra. Infatti, l’Australia per buona parte del match ci ha capito poco ma, beffardo, c’è ancora un calcio che vale i due punti del possibile colpo di reni in volata. Donaldson guarda la palla, poi alza gli occhi alla ricerca del target, quindi butta fuori l’aria dai polmoni per esorcizzare la tensione e sferra il calcio. La palla vola alta ma non trova i pali. L’arbitro fischia la fine e l’Italia, ora sì, per la prima volta nella sua storia piega l’Australia ed è tutto vero.
Donaldson affranto e rincuorato dal nostro Tommaso Allan, pronto a posticipare il festeggiamento per una regola non scritta del rugby che vuole vincitori e vinti uniti in un solo ringraziamento collettivo, è l’istantanea luminescente di una giornata di sport, quale insindacabile paradigma di vita, che siamo orgogliosi di avere vissuto. Un momento bellissimo che ripaga la passione incrollabile che tutto il popolo del rugby, quello che va dai giocatori agli aficionados francobollati alla tivù, ha saputo mantenere in vita anche quando tutto sembrava scappare via come sabbia per le dita. Ora, però, possiamo dirlo: la musica è cambiata ed ha la tonalità del cielo.
Teo Parini

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