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Roland Garros: il marziano Alcaraz fa a fettine (anche) l’estetizzante, arrogante tennis del ‘Magnifico’ Musetti- di Teo Parini

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Non siamo qua a vedere tappeti. Carlos Alcaraz ha distrutto Lorenzo Musetti, imponendogli una sanguinosa Caporetto che può sortire un duplice effetto. Fargli mandare tutto a quel paese per dedicarsi alle bellezze della vita extra tennistica oppure dargli una motivazione feroce per migliorare ulteriormente il proprio gioco, facendo tesoro delle indicazioni emerse in due ore di calvario sportivo.

Stando alle interviste del dopo gara, pare che sia la seconda opzione la strada che, già da oggi, Lorenzo intende intraprendere ed egoisticamente ce ne rallegriamo per quanto, noi che ne siamo tifosi, dipendiamo visceralmente dal suo tennis.

Intanto, e ci tocca farlo in risposta ai commentatori improvvisati che rispondono alla logica dozzinale dell’io lo sapevo che non avrebbe mai vinto nulla, occorre dire una cosa: Musetti ha giocato la sua partita e nemmeno così tanto male, ha colpito sentendo la palla e ha opposto ad un campione esageratamente epocale i trucchi in suo possesso che non sono pochi. Il problema, per lui, è che soluzioni balistiche definitive per il resto del circus non lo sono state per lo spagnolo, capace di ribattere palle contro ogni legge della fisica classica costringendo l’azzurro a replicare a un capolavoro un altro capolavoro e si capisce bene la frustrazione che possa averlo attanagliato. Come se l’attacco solare del Daitarn III, dopo aver falcidiato per centinaia di puntate i Meganoidi, avesse trovato un robot nemico capace non solo di incassare il colpo ma di restituire la pariglia amplificata alla potenza enne.

Quando nel corso del primo game, Musetti ha stampato un rovescio in lungolinea bello come la torre Eiffel illuminata nella notte parigina, e che forse solo Wawrinka saprebbe ripetere, chi di tennis ne mastica un pochino ha avuto immediatamente chiara in testa una cosa: non si può vincere a certi livelli dipingendo solo quadri d’autore, perché nemmeno Federer è mai riuscito a venire a capo di un match contro un suo pari grado senza schizzare bozze sporcandosi le mani di china. Così è stato: scambi meravigliosi, lunghi il giusto per completare il campionario somma di Alcaraz più Musetti che è complessivamente il più ricco al mondo, che finivano tutti per strappare applausi ai presenti ma per rimpolpare sempre e comunque lo score dello spagnolo. Il tennis è anche questo.

Certo, diciotto giochi a sette non sono il reale divario tra i due competitor. Lorenzo, appreso in fretta di non poter vincere, si è rapidamente sottratto alla lotta ed è questa l’unica colpa grave che gli può essere rimproverata. Il body language, riacciuffato sul due pari del primo set dopo un’uscita dai blocchi del toscano degna di Bolt, si è fatto funereo. Questione di postura fisica poco vigorosa e di sguardo perso nei meandri del Philippe-Chatriet. Come dire ad un avversario già devastante di suo fai di me quel che ti pare. Senza troppa blasfemia, tutt’altro, il ricordo è corso svelto a quella finale sempre in Bois de Boulogne dove Nadal ridicolizzò un Federer incapace di garantire che il match avesse un minimo di storia perché, appunto, in quel giorno disgraziato lo svizzero per strappare un misero quindici al diavolo maiorchino gli si resero necessari quattro o cinque colpi vincenti in fila, un’equazione matematica senza soluzione fra i numeri reali.

Però, sappiamo tutti come il fenomeno basilese, con l’aiuto di un califfo nel box come Ljubicic e una determinazione granitica, abbia trovato alla soglia della pensione tennistica la chiave per sbrogliare quello che sembrava un nodo inestricabile. Insomma, un match, quello con Re Carlitos, pedagogico per l’azzurro, chiamato a un punto a capo di quelli tosti. I colpi, è segreto di Pulcinella, ci sono tutti, la sfrontatezza dimenticata ieri negli spogliatoi non sarà difficile da esibire di nuovo una volta ricaricate le energie mentali e la chiave tecnico/tattica per provare in un futuro prossimo a fare almeno partita pari con Alcaraz non è impossibile da scovare. Qualcuno si dimentica che non più tardi di qualche mese fa, proprio il Muso, battendo questo stesso Alcaraz, si è preso con forza il 500 di Amburgo e si sa che l’attuale giocatore più forte al mondo non accetterebbe di perdere nemmeno al torneo di dama del circolo di Ponte Vecchio. Figuriamoci se regala una finale.

Parlando un po’ di Alcaraz, in quanto a tennis c’è da ammettere con tutta la campanilistica invidia del caso di essere al cospetto di un giocatore spedito sulla Terra dagli Dei del gioco per dettare una nuova via. Uno di quelli che può godere del fatto che i suoi avversari scendano in campo più per fare una figura onorevole che per provare a vincere il match, la stessa sindrome-Alcaraz che in misura importante ha infettato Musetti. Chi negli anni Novanta ha ammirato l’innovativo flipper tennis di Agassi teorizzato dal suo mentore Nick Bollettieri, e ha pensato che una migliore transizione dalla fase passiva di contenimento e quella propositiva di offesa non fosse oggettivamente possibile, oggi deve ricredersi perché Alcaraz, proprio questo segmento del gioco, se, appunto, non l’ha inventato lo ha però elevato su piani prima impensabili con buona pace del kid di Las Vegas. Gambe potenti come quelle di un discesista che domina la Stelvio, unite all’elasticità muscolare di una molla, gli consentono di coprire il campo che all’avversario appare di rimando minuscolo e raggiungere palle apparentemente perse. Replicando, facendo tesoro della sensibilità esagerata delle sue mani di fata, con bordate che fanno il buco per terra. Morale, gli tiri una granata e lui risponde con un missile ipersonico: avvilente.

Per di più, non lo si prende in castagna nemmeno giocando di fino perché anche a pittino – il giochino dei tocchi, detto a beneficio dei meno avvezzi – è laureato con lode all’università della sensibilità. E quando con un serve and volley rigoroso e letale come quello di un Rafter, e non è affatto un concetto iperbolico, si è preso un quindici piuttosto importante, si è capito che per giocarci contro, più che la racchetta, servirebbe un kalashnikov e una mira infallibile. Da cecchino, perché, manco a dirlo, sul breve ha la velocità del suono. Poco da aggiungere: se dovesse aver voglia di sacrificare sull’altare del tennis i suoi anni migliori e il fisico sosterrà un tennis atleticamente dispendioso, Alcaraz è destinato a guardare tutti dall’alto per un tempo tendenzialmente infinito.

Tendenzialmente. Perché lo sport del diavolo ci ha insegnato a non dare mai nulla per infisso nella roccia e ciò che è oggi potrebbe benissimo non esserlo domani. In tutto ciò, noi cultori del bello, benché la conta dei punti continui a non essere la nostra priorità, siamo un po’ amareggiati, giusto dirlo, convinti che Lorenzo il Magnifico avrebbe potuto sostenere l’incontro in virtù di un talento esagerato – e chi lo nega si merita a vita il rovescio di Ruud – senza finire per fare da sparring partner, pagando l’ora a circolo e il compenso professionale al maestro.

Di una cosa, però, abbiamo la certezza, anzi due. La prima è che Carlos Alcaraz è quel tipo di numero uno che il tennis dovrebbe sempre esibire per glorificare sé stesso e lo status di disciplina meravigliosa. La seconda, invece, che l’arroganza tennistica di Musetti non ha certo finito di farci saltare in piedi sul divano, perché la sua genia resta quella dei grandi. Anche dopo una dolorosissima stesa.

Teo Parini

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