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Roland Garros: a muso duro, l’elegiaca e imprevedile sindrome da ‘beau geste’… ‘chez’ Lorenzo il Magnifico- di Teo Parini

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Se il tennis resta una disciplina meravigliosa, anche se un po’ bistrattata dalla maggioranza dei suoi noiosi attori, è perché talvolta si degna ancora di elargire pomeriggi come quello di ieri. Peraltro, un normale mercoledì della prima settimana di un torneo dello Slam, che significa una giornata dedicata al secondo turno del tabellone, mica alla finale.

Da fruitori, capita quindi di incappare in evidenti mismatch nei quali quello forte trova quello decisamente più debole e in quanto alla conta dei punti non c’è storia. La somma algebrica di scarsa abilità tecnica, purtroppo (quasi) una costante, ed esito in ghiaccio, ha per risultato il motivo per il quale può essere più ricca di suspense anche una telenovela argentina degli anni ottanta.

Del resto, quei diavoli di Bublik e Paire hanno pensato bene di estromettersi dal torneo dei Moschettieri già all’esordio, Kyrgios non ha nessuna intenzione di sporcare di mattone tritato le costosissime Nike che mette ai piedi e Shapovalov non attraversa un periodo particolarmente propositivo, come quegli artisti svuotati da un’ispirazione che va e che viene. Tempi duri per la raffinatezza, insomma. Certo c’è sempre quel bendidio epocale di Alcaraz a cui aggrapparsi, ma lui, più che artista maledetto, è una sentenza come le tasse e la morte e nella sua immensità tennistica, paradossalmente, perde un po’ di poesia agli occhi di chi ha speso i suoi anni migliori sperando che, una volta o l’altra, Willy il coyote prendesse il Beep Beep.

Tutto vero, l’egemonia del corri-e-tira e il retaggio culturale del comunque compianto Nick Bollettieri sono cose con le quali fare di conto analizzando il pianeta tennis. Poi, però, in Bois de Boulogne e in quello stesso noioso e scontato mercoledì di fine maggio appare la figura mitologica di Musetti. Lorenzo il Magnifico, mezzo tennista e mezzo pittore, e tutto il doveroso preambolo di cui sopra comincia a contare come il due di picche a briscola quadri, cioè poco. Musetti, mentre i Djokovic e i Nadal vincono e rivincono tornei, fa un’altra cosa anche se, al pari dei due dioscuri, utilizza lo stesso attrezzo. Che sia italiano, per l’Italia è una benedizione almeno pari ad aver avuto tra i suoi connazionali uomini di sport speciali come furono Roberto Baggio, Lollo Bernardi o Marco Pantani: uno sfacciato colpo di fortuna.

Musetti, per restare alle dinamiche del campo, si è trovato di fronte Alexander Shevchenko e i più simpatici ci diranno che quello buono ha giocato nel Milan ed è piuttosto in là con l’età per competere. Battuta a parte, il nativo russo non è proprio l’ultimo arrivato, considerato che un santone come Gunther Bresnik, già mentore di Becker, Leconte e Thiem, ha accettato di esserne coach e la sua classifica è abbondantemente sopra alla centesima posizione mondiale. Shevchenko, probabilmente, ricorderà quella di ieri come la giornata più avvilente della sua storia d’amore con il tennis. Non tanto per la prevedibile sconfitta, quella ci sta tutta, quanto per l’esibizione stilistica che l’azzurro gli ha gratuitamente sbattuto in faccia con l’arroganza tennistica degli eletti, palesando la stessa differenza di talento – inteso come la capacità di gestire con agio situazioni proibitive per il resto del genere umano – che passa tra Van Basten e Pasquale Bruno. Sfido chiunque ad aver pensato che i due ragazzi stessero facendo lo stesso sport, benché vestiti in maniera similare e dotati della stessa arma d’offesa.

Se lo score conta davvero poco, anche se la severità dello stesso suggerirebbe qualche ulteriore spunto d’analisi, a importare moltissimo è la qualità profusa da Lorenzo in un centinaio di minuti irreali, così sui generis da destabilizzare emotivamente anche un pragmatico come Wilander, che da giocatore fu archetipo di orripilante modernità, con il suo gioco che a definire sparagnino gli si faceva un complimento, e da cronista è l’elogio permanente al “winning ugly” nella formulazione, per chi se lo ricorda, di Brad Gilbert. Mats, uno che comunque mastica e analizza tennis da una vita, nell’intervista di rito ha infatti definito Musetti come un mix tra Roger Federer e Guga Kuerten, che è un po’ come dire ad un matematico che la sua mente geniale compendia un po’ di Euclide e un po’ di Pitagora. Come dargli torto.

Musetti è proprio Musetti perché, con una gestualità che è classicismo e futuro insieme, impedisce di prevedere cosa succederà con la palla successiva che, quale meravigliosa cifra stilistica, non sarà mai uguale a quella che l’ha immediatamente preceduta. Musetti è, in tal senso, la variazione issata al potere, la fantasia balistica in carne ed ossa, l’educazione certosina di una mano dalla quale, parafrasando lo scriba Gianni Clerici, una volta nella vita vorremmo tutti quanti essere accarezzati. E se tutto ciò non sarà mai sinonimo di successo, per inciso Lorenzo non vincerà questo Roland Garros e nemmeno il prossimo, è però il motivo per cui, anche nel periodo storico nefasto dei Ruud e dei Rune e della dipartita di Federer, la nostra voglia di tennis non potrà mai esaurirsi.

Lorenzo, un highlight senza soluzione di continuità, è ascrivibile a quella cerchia di campioni che, se proprio non l’hanno inventato, il loro sport lo hanno sospinto su traiettorie inesplorate. Con buona pace di Sinner e ancora di più di Berrettini, che restano ovviamente una ricchezza per la nostra federazione, è proprio il toscano a riallacciarsi al discorso incominciato da un Panatta oggi meno solo e che purtroppo interpreti via via meno brillanti, fatte salve rarissime eccezioni, hanno lasciato cadere nel dimenticatoio. Nell’attesa di sapere se al pari del meraviglioso Adriano anche Lorenzo avrà il suo magico 1976, ma non è fondamentale accada per aggiustare il giudizio su di lui, gli si deve fin da subito un grazie grande come una casa per aver riportato il tennis azzurro sul piano che la disciplina del diavolo merita: quello dell’inesausta bellezza. Perché, nella vita, non conta quanto fai ma come lo fai e Musetti lo fa alla maniera di quelli geniali.

Teo Parini

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