Dopo oltre un quarto di secolo emerge finalmente una pista per l’omicidio di Nicola Vivaldo, ucciso la sera del 23 febbraio 2000 a Mazzo di Rho. Per 26 anni quel delitto era rimasto un enigma. Ora, grazie alle rivelazioni del pentito Emanuele De Castro, ex appartenente al locale di ’ndrangheta di Lonate Pozzolo, i carabinieri – coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia – hanno eseguito sei arresti tra mandanti, organizzatori, basisti e presunti killer.
Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, Vivaldo, 66 anni, attivo nel traffico di droga nella zona di Rho, era sospettato dal clan di essere un confidente della polizia. Per questo motivo sarebbe stato condannato a morte dal capocosca calabrese Vincenzo Gallace, 77 anni.
A eseguire l’ordine fu, secondo l’accusa, il boss di Lonate Pozzolo Vincenzo Rispoli, 62 anni, che avrebbe coordinato il commando composto da Massimo Rosi (indicato come colui che sparò), dallo stesso De Castro e da Stefano Scatolini, l’uomo alla guida dell’auto. Il 53enne Bruno Gallace avrebbe procurato le armi – due pistole calibro 7.65 – mentre Stefano Sanfilippo, 79 anni, amico e compare della vittima, è ritenuto il basista che fornì la soffiata decisiva per localizzare Vivaldo.
Il racconto del collaboratore di giustizia ha trovato riscontro in una nuova consulenza del Ris di Parma, che ha chiarito alcuni dubbi iniziali sulla dinamica dell’agguato. L’assenza del “tatuaggio” da sparo sul corpo della vittima, infatti, aveva fatto pensare a una distanza maggiore tra killer e bersaglio. Ma l’utilizzo di un silenziatore, come riferito da De Castro, spiega la mancanza delle tracce tipiche degli spari a bruciapelo. La posizione dei bossoli, finiti quasi tutti nell’abitacolo dell’auto, conferma la ricostruzione dell’esecuzione a distanza ravvicinata e con la portiera aperta.
Decisive anche alcune intercettazioni di Rosi dopo aver appreso del pentimento di De Castro:
«Magari ha detto cose che neanche mi ricordo… abbiamo fatto una vita insieme». In un’altra conversazione, con la sorella, avrebbe aggiunto: «Se questo parla, mi fa fare il segno della croce».
Una verità che arriva tardi, ma che restituisce finalmente un quadro credibile su uno dei più oscuri delitti di mafia consumati nel Milanese agli inizi degli anni Duemila.



















