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Dall'archivio:

Resurrezione Magenta, Chiesa Assunta. Giorni nostri

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MAGENTA – Si coglie un sentimento di letteratura e di gestualità, eccolo il teatro, dentro il lavoro di ogni restauro. In quello scrigno che il tempo asciugandosi in sedimento ha deposto. Diorama celato al nostro fuggevole e distratto sguardo. La Chiesa Assunta. Oltre il battente, spinta l’anta imporrita dentro la penombra in cui la cruenta polvere deposita, immerge un silenzio in cui il mondo lì esterno pare un’eco lontana, eccola, è là. Una piastrella. Una comune marmittina a pavimentazione tipica delle abitazioni ante guerra. Quadrata, un palmo di lato. D’un giallo senape, screziato in frammenti grigiazzurri. Di quei corridoi appena illuminati da timide lampadine a venticinque candele dove si pattinava su pianelle di feltro. Le fabbricavano a Lodi, acquistate nel 1936, abbiamo ritrovato in archivio la fattura firmata da Monsignor Luigi Crespi. Parla Francesca Monno, architetto, il cui occhio greco, capace di scorgere nella notte un riflesso di luce, dice del rifacimento voluto dal prevosto o arciprete di allora, che si adoperò al restauro per riaprire al culto una chiesa semidiroccata. Ne parla con rispetto. D’altronde Cesare Brandi aveva solo trent’anni in quel Trentasei e la sua “Teoria del restauro”, gli era tutta in nuce e non ancora nell’atto della scrittura che fluì poi ai primi del Sessanta, libro bibbia sul metodo al quale ancor oggi si deve corrispondere, con fermo rigore di coscienziosi progetti. Ma allora, in quel Trentasei, un monsignore che chiama il suo popolo all’obolo, già li vediamo i maschi adulti con i baffi a manubrio e gilet abbottonati sussurrarsi in cacofonie mentre le madri, dall’altra parte dalle navata, valutavano per la moneta di quale miseria si potesse fare misura. E così, raccolti i fondi, un semestre alla volta, per tre anni di fila, il Crespi diresse i lavori. Dal Trentasei al Trentanove. Con piglio suo che, si racconta, sia stato fermo e con la cultura sua, figlia, tanto quanto la nostra, dei suoi anni. Tutto lui fece. Ecco, l’architetto F.M. illustrando la sistemazione non si perde in querule invettive d’intorno le artigianate da bottega imbianchina. Operarono con tavolati a coprire le antiche mura e con una doppia mano di gesso rifinito a tintura spessa arabescando alla maniera dei maestri di stucchi. Non si perde Francesca Monno, che condivide con il marito architetto Fabrizio Ispano il lavorio del restauro in cui si saggia, ad ora, una completa valutazione, e non si perde nell’inutile recrimine. Anzi, dimostra, con il dire suo in cui la conoscenza si impasta con la passione, che anche il bric a brac dimostra il tempo, il tempo che si è sedimentato e placato nella sua furia di andare e andare. E quindi, ora, tassellando una parete, affiora un celeste che smaglia da quel fosco verdebruno del Trentasei. Un celeste ripulito che richiama, e lo si scrive con facile metafora, l’anima di quegli uomini, i celestini, che s’adoperarono alla causa di Celestino V il cui gran rifiuto ancora batte la mezzanotte in Sant’Angelo, Roma, anno Domini 1294. Un celeste risorge da quelle ombre stampigliategli sopra. Così come quella terra che sotto la marmittina svellata comprata a Lodi si mostra dopo anni e anni, secoli e secoli, di sepoltura. La terra sepolta riemerge e la sua pietra è viva. La resurrezione.

 

E.T.

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