Cinqueaprile
Le nuvole nel cielo son come quelle che, e accidenti mi sembra ieri e lei è qui con me e un accidenti ancora ma di bellezza, più di trentanni fa’, le nuvole per l’appunto, han riempito il cielo sopra i giardini di Porta Venezia e io lì a correre pensando, che senza il soprabito non si va non si va, ma Gesù Santo è tardi tardi, no?
Che quel mio ritardo, che quei quarantacinqueminuti, le devono essere sembrati i più lunghi di quella sua storia di allora. Che quel tempo, interminabile, riempito con chissà cosa e chissà come, anche a me deve esser parso infinito.
Si ma davvero infinito come l’amore mio per lei e lei per me. Questo matrimonio, celebrato, in ritardo, dall’ufficiale del comune di Milano, senza la pompa magna, una cosa che a noi non sarebbe mai andata, ma onorato con riguardo per le persone cui avrebbe rivolto il Suo discorso, improntato sulle regole, sui principi di vita, che, più volte nel corso della chiacchierata, avrebbe puntualizzato.
Quel rispetto e perdono e comprensione per gli errori – tanti – quelli che sarebbero inevitabilmente accaduti, sui dolori che avrebbero farcito la vita e, anche l’inevitabile e l’imponderabile.
Perché poi tutto fa parte del gioco di vivere e di vivere assieme, poiché è come sulla tavola apparecchiata, dove dopo il desinare restano i piatti, quelli con gli avanzi, anche quelli che non ti sono piaciuti, ma tant’è.
E’ la vita, è il vivere!
Un’armonia questa, suggellata allora, sempre messa in discussione da continui intervalli. E’ Come nello spartito musicale, sospensioni liason, note sù, note giù, note sopra e note sotto, note fuori dal rigo, fuori dalle regole. Regole mah, come andare fuori dai confini della realtà, che non esiste, mai.
Che noi, poi, siamo la nostra realtà, che noi, poi, siamo la nostra regola, scritta chissà come un giorno, in alto in montagna, mentre si stava vicini, dopo l’amore, quello che sempre facevamo appena si aveva tempo e voglia di stare assieme, fusi nella mente e nello spazio, e forse anche un po’ storditi dal sentimento che veramente confonde il pensiero.
Siamo qui, ora, io e il “vassoio” con un’umidità galleggiante “Accidenti, forse troppa acqua, ma il calorifero oggi svolgerà la sua funzione e asciugherà ben presto il tutto” mi dico tra me e me, riposiziono questo mio pensiero nel tempo. Noi quindi qui, dopo tutto questo tempo, io e il “vassoio”.
Sto qua a guardare e riguardare sopra le foglie che ancora non si fanno vedere, chiamo e grido piano, nella mente, i nomi dei futuri tronchi, assaporo con la fantasia le curve dei rami che allargheranno le fronde sui prati scoscesi, quei germogli che assaporeranno le brume autunnali, magari e ben presto.
Immagini che servono alla memoria, che servono a irrobustire la mia fantasia, come quella di ier sera mentre appoggiavo la grafite sulla carta definendo e concretizzando lo spazio del mio prossimo progetto.
Curve, prospettive, proiezioni e non solo ortogonali, che serviranno ad avvicinarmi al quesito, campi scenici che mi aiuteranno nella futura definizione della soluzione che immagino di proporre. Di certo non l’unica, ma quella scaturita, emersa dalla serie di filosofie strutturate sulle logiche assunte dopo la pausa meditativa.
In fondo mi dico, la carta è il panno delle mie idee, lava via il superfluo, lascia l’essenza; è così noi, è così il nostro vivere. Io e Li, così lontani a volte nella costruzione dei nostri progetti, così intimi nella gestione spericolata delle nostre idee, delle nostre utopie, che costruiamo per la nostra casa del cuore.