Ventiduemarzo
Non erano gemme, una svista colossale la mia, quella dell’altro giorno. Altro che gemme, steli che spingevano dal sotto, magari. Solo un velato muschio, verdino, che ha ricoperto quelle frattaglie di polistirolo, quello che si aggiunge al terriccio, furboni i commercianti, per alleggerirlo e dare più massa con niente, quindi una coltre di poco, forse di niente. Quel niente che ci avvolge spesso, con la falsa illusione dell’essere reale. Come la pubblicità sui midia, scarpe, auto, gioielli, orologi e donne impossibili da raggiungere, ma vorrei proprio conoscere uno che a venticinqueanni, non solo ha la possibilità, ma soprattutto il desiderio, sottile, mentale, intrigante e superlativo per desiderare un Riva, quel motoscafo icona dell’Italia degli anni cinquanta, tutto foderato di legno e a poppa, con le “poppe” quasi al vento, il foulard e l’occhialone sopra il naso la ragazzona ingenua, e lui ancora con i cavello indietro imbrillantinato, la in mezzo al molo e poi via nell’azzurro mare. Ma, dico io, c’è li avete visti i giovani d’oggi? O sono schifati da queste assurdità o ci hanno altri interessi, magari del cazzo. Insomma sto niente che davvero dovremmo, anzi no dobbiamo fuggire da quel niente per cercare di arrivare alla verità, certo, alla quasi verità, anche se basta la non menzogna, probabilmente.
Punto.
Ergo il terriccio comunque, umido e caldo sta lì, anzi, stanno lì tanti e tanti vasetti, che ne è diventata una mania, una persecuzione, un rito, il mio rito, il nostro rito, il vostro rito. Il rito e basta!
Mattino: entro si alzano le tapparelle, sgancio prima i due ganci delle finestre piccole, tiro fuori il portatile dal cassetto della mia babele, quella con i frontalini di faggio, quel mobile che ho modificato dopo che le scatole della Mecanorma e Letraset[1] sono state “archiviate”; la comparsa dei vari cad, bim, hanno decretato l’accantonamento dei trasferibili e dei retini, la mano sostituita dal computer, una parola terrificante anche se maledettamente più veloce e a volte pratico; comunque sia estratto il computer (che metto li per via di una scaramantica protezione, dopo che negli anni, me ne hanno ciulati tre o quattro non ricordo più) e sistemate quindi due cose, mi accingo al rito. Tolgo, dal gancio alto del rubinetto del gas, che tanto non è attivato qui, il becco giallo dell’innaffiatoio, lo riempio attingendo dal rubinetto del lavabo nel cucinotto, quello che ho dipinto con la resina rossissima (un tentativo di recuperarlo almeno come funzionalità, dopo che quello spilorcione del proprietario della casa ha lesinato persino sul numero degli apparecchi da sistemare, ma dovrebbero ricordarlo tutti che i soldi non vanno di là con noi, questo dovrebbe ricordare la gente, accidenti), e inizio il giro del rito, l’innaffiamento e il controllo dell’umidità. Prima il vaso sul davanzale del cucinotto, quello dove mi parve di avere notato le prime gemme, ma era un imbroglio della mia mente, poi giro sulla prima finestra grande, a destra nel vaso di coccio che non capisco come mai che più lo bagno e meno si inumidisce, è di un cotto che assorbe all’infinito e, quell’ederina dentro striminzita cresce a rilento, meno di un millimetro al mese, mah sarà? ma lascialo lì , non ho cuore di toglierla, forse, forse, quest’anno mi accingerò a trapiantarla; e si che magari gli farà bene; poi nei due nuovi arrivati, umidi sono umidi vabbè aggiungo un po’ d’acqua, eccomi sulla finestra piccola, quella dove ho collocato la taglierina, che ora uso poco e niente. E magari arrivasse qualche lavoretto, che ci mettiamo lì tutti assieme a congetturare forme, pieni e vuoti che si intersecano prima nella mente e di poi anche sulla carta.
Già il lavoro …P? per poi andare nel CANTIERE, a sentire il profumo del cemento, del butume come lo chiamano qua, che ho imparato da piccolo a chiamarlo così, a magiare sul tavolaccio di legno, stavolta però con Naim che è arrivato da Valona, dall’Albania, terra dove sono stato nel millenocvecentonovantaqauttro (quando è nato il mio Luchino), a chiacchierare con Dimitri e il neraccio Aziz con quei baffettini che forse là , nel suo paese non avrebbe mai avuto il pensiero di farseli crescere ma che qui, la bionda Giovanna gli ha detto come stati bene Azizino mio.
Ma i pensieri si sciolgono ancora, e allora guardo il più bel vaso che ho, quello dove un volta ci stava un bonsai che ho voluto liberare nel bosco, quella terra che lo ha accolto, forse divorato, e lì ci ho messo un seme di albizia che è sbocciata quando stavo nell’altro studio, e ogni mattina verso il prezioso liquido, ne esce un po’ dalla crepa che ho riparato lo scorso febbraio dopo che l’inverno duro di quest’anno me lo ha crepato sul fianco, oggi ho visto ancora una stilla, ci metterò un’altra pezza; di fianco immobili i vasetti con i semi della gazania e degli anagallis e speriamo crescano in fretta per trapiantarli, infine sempre nella stanza grande, mi giro: il “vassoio” fa bella mostra di se, è sul lato accanto al muro di confine, così prende il caldo, leggermente schermato; la parete giallo ocra, che fronteggia il tutto, fa brillare il sole anche quando c’è ne poco, poi di fianco il vaso basso di coccio che ho riempito di quattro piante grasse, crea uno sfondo, sul lato destro, appoggiato su di una tolla vuota di plastica, una verzura di cui non conosco il nome, una di quelle piante da appartamento che crescono a volte rigogliose (ed è questo il caso, tant’è che ho sollevato per l’appunto il vaso dal piano con l’artificio della tolla, per permettere al fogliame di risvoltarsi sull’appoggio), che fa da margine al tutto; da un lato la scogliera artificiale e dall’altro la piccola foresta. Entro dal vano sempre aperto, e con qualche equilibrismo finisco la mia opera. Prima la rassegna dei piccoli ficus benjamin, a scaletta stanno su di un contro davanzale che ho artatamente costruito la scorsa estate, due assicelle fissate al muro a mo di binario tra le due estremità dell’imbotte della finestra e sopra una campionatura di assi di pannelli, quelli ipotizzati per l’ufficio di N&G a Firenze con l’impiallaccio della Tabu, che Davide, un mio vecchio alunno mi ha cortesemente spedito e che io ho utilizzato assieme al Salvatore falegname per la prova, quindi anziché buttare ritualizziamo, e ora, sopra, ci stanno per l’appunto le mie rassegne.
Prima dunque il vaso grande di vetro e poi il bicchiere porta candela, un vasetto forse della marmellata o non so, e l’ultimo un bicchiere che viene dalla Romania, dove è nata la mamma, fuori sul davanzale quattro vasetti che ancora non producono nulla tranne che quei lunghi fili d’era e il vasone di coccio decorato con le piante ormai mature della gazenia e anagallis che tra poco, immagino fioriranno.
Bene ho quasi finito, vado sulla scaletta del soppalco, sull’ultimo pe’ d’oca e sopra, sulla libreria bianca, il rosso vaso decorato dove la patata americana ha filato lunghi steli, si bene ho finito. No c’è ancora la libreria dietro le mie spalle, i due cilindri di vetro, l’altro vaso con il fogliame, il vassoietto con il cilindretto di terra che è ancora nudo e per ultimo, davvero l’ultimo, quel vasetto d’omogeneizzato, dentro la mia prima libreria progettata, segata e assemblata, assieme a Laura e l’Annina, dove avevo appoggiato una piccola patata americana e che, con mia grande sorpresa ha, qualche settimana fa, fatto comparsa un piccolissimo germoglio.
Bene Credo di avere finito. A volte mi chiedo ma sono in una serra..No no, c’è per ultimo il benjamin vicino al tecnigrafo.
Ecco ora ho proprio finito, contento, finalmente mi metto all’opera.
[1] Vecchie aziende che producevano lettere trasferibili da applicare ai disegni, utilizzate specialmente nel mondo della grafica, prima che la tecnologia informatica si sovrapponesse alla mano libera. La Letraset più famosa che produceva e produce ancora i pennarelli della linea Pantone, vero e proprio metodo di disegno e del colore