Ventunofebbraio
Quelle tracce che noi segniamo, quei deboli segni che ci permettono di proseguire, nonostante tutto, come Norberto che sta lottando con quella brutta bestia che ha dentro di se e che se lo vuole contenere, per racchiuderlo dentro al sacco e andare via lontano dai nostri occhi, per sempre, non per un momento che, vado di là un attimo guardo di che cosa hanno bisogno, cerco di dare una mano, per quel che posso e so fare si intende e poi, non tra molto perché anche voi qua avete bisogno della mia mano d’opera e quindi torno. No quando quel fardello ti coglie, è per sempre.
Ma del resto è il peso della nostra menzogna perenne.
Già per sempre come per sempre se n’è andato il Maurizio, quel ragazzo, perché era una ragazzo, oddio un ragazzone, importante, avresti detto la sua figura; qualcuno vociferava che era grasso, ma poi grasso rispetto a chi e che cosa. Censori tutti diventiamo, perché così non nasciamo. Nasciamo con indole diversa, all’origine credo siamo tutti ben disposti, poi nel corso degli anni, magari con piccole e modeste sconfitte sulle spalle, attribuendo agli altri il peso dei nostri insuccessi, e così cominciamo a navigare nel mare delle nostre incertezze e, lì nella burrasca che è tutta nostra, diventiamo grandi sulle sfighe degli altri, meglio, sulle piccole incongruenze che, a ben vedere, sono e appartengono indistintamente a tutti. Questi essi, diventano per noi lo specchio della nostra vanità. Un corpo più scolpito, i denti ben allineati, la bruttezza vista come peccato, pance strabordanti, caviglie massicce, nasi adunchi, capelli radi, gambe storte, infine tutte caratteristiche che ci sono capitate e non sono vizi capitali, sono per noi, meschini suggeritori, finalmente il nostro riscatto verso il e la nostra incapacità.
Il “vassoio” si arricchisce, montagne sorgono dal basso, contengono i semi delle future foreste che lo abiteranno, una densa e marrone coltre sta conquistando il candore dell’originario telo da me collocato. Così modifico pigramente ma caparbiamente questo piccolo ambiente, lo nutro, lentamente, costantemente, lascio che le molecole dei grani della materia antesignana si uniscano, si formino le asperità lungo le quali sorgeranno nuove vite, creste che si agglutineranno con radici forti e resistenti, una ragnatela che tesserà la massa, la massa che non si scioglierà dopo, una volta che la pioggia manuale che io inciderò sul versante, calerà sopra di essa.
Ma non basta. Non mi basta.
Non si amplia, il “vassoio” ma si accompagna con altri, più minuti, più modesti sia nella forma sia nella sostanza, solo due essenziali coni in argilla, collocati là sul davanzale accanto alla finestra che illumina il vassoio, quell’apertura che ogni sera chiudo e proteggo col catenaccio. La finestra grande invece, privata lo scorso settembre di alcune crescite, sempre in vaso e liberate poi nel pieno campo del Caselle a dar libero sfogo alle loro necessità.
E’ un rito, questo, il mio, raccolgo in giro, sui campi aperti, sulle aiuole cittadine, sul sagrato della chiesa lo scorso inverno a Nerviano,[1] ogni tipo di seme, ghiande, baccelli e altro che possa nella primavera successiva, sconfiggendo la dura scorza protettiva, liberare una nuova esistenza, perpetuare l’incantesimo della natura.
Ogni volta è un’emozione, ogni volta è un’avventura; calibrare la quantità di terriccio da porre in copertura del seme, con il timore, nullo, che il piccolo non possa farcela. E invece niente di tutto ciò; negli anni ho imparato a classificare, a contare i giorni, le ore financo, del passaggio tra l’albume e il tuorlo di quest’uovo primigenio, un uovo che non …. aaaahh ma niente, niente,a volte mi dico ma è solo un seme. Un po’ come quando vedi, in guerra, morire i soldati, numeri sacrificati per l’ingordigia dei pochi. Allora questi semi sono importanti, dare ad ognuno la possibilità di esprimersi, di badarli, di custodirli, di allevarli, per poi, necessariamente, porli nel “vassoio” più grande, nel “vassoio” aperto laddove ognuno imparerà nel confronto, ognuno trarrà e ognuno potrà dare. Sarà così che questi soldati, non sacrificati per nessuna guerra, sia personale sia collettiva, perché le guerre anche se collettive sono pur sempre atroci, in guerra si muore e non si vive più, realizzeranno il Progetto.
Questi soldatini, allineati o sparsi che siano, faranno, cresceranno, terranno insieme i miliardi delle molecole di un terriccio che non ho collocato io ma, forse, il buon dio, daranno cibo e protezione per mille animali, saranno travi per tetti, tavole robuste per i solai, assi pregiate per le credenze, le madie, quel buon sapore di legno fresco che lascia sulle camice il profumo del cedro rosso, che se lo sentono le tarme fuggono. Insomma, una cornice, questa di questa crescita che è tutta d’oro, tutta in progress, come si usa dire ora, in questi anni di commercio sfrenato. Ma, già ma, perché c’è sempre un ma, che non necessariamente è negatività, ma dunque, per tutto questo, tutto quello che nelle mie parole ho cercato di restringere, perché sennò nella pagina non ci sta e forse, Voi che leggete, Voi che state faticosamente andando avanti con questa storia per capire cosa cacchio succederà alla fine, chi sarà l’assassino, se il maggiordomo o il cameriere (che poi è un maggiordomo degradato), nelle parole condensate, strette, asciugate dalla broda della lungaggine espressiva, cosa ne trarrete alla fine?
Ci vuole la pazienza, ci vuole la santa pazienza, più di quella di Giobbe, come quella di oggi, che i tempi sono grami, anche se oggi, ogni giorno mangiamo, tutti o quasi.
La pazienza che è fatta di giorni che si alternano uno dopo l’altro, quasi uguali ma sempre diversi, di stagioni che se davvero sono quattro a volte sembrano sovrapposte o miscelate tra loro. In questa continua mescola di situazioni, che ha richiesto, come nel mio bosco delle noci un decennio di preparazione e, credetemi dieci anni possono essere veramente lunghi da passare; un bimbo nasce e a dieci anni è un quasi adulto (in alcuni paesi già girano con le armi, in altri sono fantini già vecchi, in altri ancora hanno già loro, bimbi ancora, bimbi dal loro grembo), una costanza e azioni per cosi dire prodromiche che alla fine, ma tanto tempo dopo, daranno il frutto. Il frutto che qualcuno coglierà.
Dunque è questo: un percorso che si inizia, si programma, si concerta con il luogo, con chi vi abita. Le strategie, anticipate nel momento del concepimento stesso dell’azione.
Oggi è una lunga giornata, il Maurizio ha preso la sua strada per il paradiso, è andato via da qui, il suo volto è solo nella nostra memoria oltre che in quello specchio del nove dodici incollato sulla pietra grigia là in alto sull’alveare in fondo al paese.
Come lo ricordo bene il Maurizio io, come si ricordava bene di me il Maurizio, che ringraziava sempre di essere stato io, paziente verso lui e il Fabio, il figlio della maestra. Discoli, diceva lui, che facevano impazzire me e forse qualcun altro; io che di ricordi di quei tempi ho i pattini a rotelle, le corse sfrenate a saltare il buco della rampa dei box; una pazzia a pensarci bene oggi; della cantina dove dopo la corsa dipingevo l’orizzonte verso la campagna oltre la circonvallazione ancora in costruzione, che ci andavo con la piccola bici rossa; che ho negli occhi la figa pelosa e ispida della Wanda che solo Flavio riusciva a toccargliela per primo e che io goloso e invidioso stavo a lì a sospirare e che lei, guardandomi con occhi dolci e languidi forse voleva dirmi qualcosa; che mi ricordo dell’Antonietta che si sfregava sempre le mutande umide dei suoi sapori sopra le mie mani e che io dopo, sudato e rosso andavo nel bagno a farmi le pugnette, assieme anche agli amici. E …. chissà se il Maurizio, ora è davvero felice e contento del suo pistolino, della sua macchina rossa, decappottabile si intende, della moglie che mostrava a tutti senza palesarla tanto, ma che si vedeva che ne era felice; lui che non c’aveva avuto tante morose, quell’andare con la pipa in bocca, quel rivolo di barba pelosa che correva dal labbro, dalla mosca sino al mento, a chiudere un percorso che ti sarebbe sembrato infinito se il corpo non avesse infine reclamato la sua volumetrica importanza. Chissà se quella donna, triste e persino schiva, vedova senza progenie e senza patria ora, che lui se n’è andato, ora avrebbe capito l’importanza della vecchia azione. Chissà se di quell’innamoramento, forse finto, ma pervicacemente adeso alla vita, forse sospinto dalla stessa, sarebbe rimasto qualcosa nell’aria che noi tutti respiriamo.
Chissà se pur io capisco solo ora quell’animo gentile che avrebbe voluto ricambiare con un segno materiale quella mia generosità che neppur io sapevo di avere donato?
[1] Semi che nasceranno nella primavera e che costituiranno le basi del piccolo bosco che sarà piantato nell’autunno dello stesso anno; cosi la foresta nascerà e l’acqua tornerà a sgorgare.. da “L’Uomo che piantava gli alberi”