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Dall'archivio:

Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti, di Ivan D’Agostini- 20 marzo

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Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.

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Ventimarzo

Trenta giorni e anche meno, con la primavera che è alle porte e oggi che l’inverno se ne va, per ritornare, puntuale tra duecentosettantagiorni circa, non solo nel vaso del davanzale piccolo, ma pure nel ramingo vasetto, accidenti, sempre di plastica recuperata, stanno emergendo le teste verdi; è entusiasmante vedere come spingono la terra sopra la loro cocuzza e cercano il sole, così come lo cerco io; a forza, con forza. Là invece, nel “vassoio”, tutto tace, come nella vita mia.

Nonostante il sole, nonostante la dedizione, la cura, niente.

Ecco.

Emergenze che riemergono dal passato, queste le mie speranze. Strano, uno strano silenzio, rotto a tratti dal trillo del telefono che il più delle volte reclama qualche adesione commerciale e niente più.

Sorvolo, con la mente, gli strani cieli sopra di me, quelli che non vedo ma che sento; il silenzio incombe. Eppure ho un frastuono dentro di me, immaginazioni che premono per uscire, per rendersi visibili ai più e ho timore che non basti la giornata per riempire di nero il bianco, ho timore che mille, cento o una condizione, raminga questa, non sia sufficiente a plasmare il sottile filo dell’idea che frulla tra i radi capelli, sotto la cute, un movimento che non si vede, che non si sente.

Accidenti ma come sanno essere rumorosi questi pensieri, che non riesco a mettere in fila per benino, perché sono tanti e disparati, eterogenei nella loro espressione, che riguardano tutto ma anche solo uno, l’uomo più in generale che, come egli solo sa essere è eclettico in tutte le sue rappresentazioni. Religione, confessione, scienza, gioco, costruzione, lavoro, politica, ora mangio un gelato, ora vado in bicicletta, ora gioco, ora leggo, ora faccio all’amore, ora guido l’auto, ora ammazzo, ora ferisco, ora curo, ora mi masturbo, ahh vengo espando la mia ira, contengo l’amore che c’è in me …

Ora, ora vorrei chiudere gli occhi per cent’anni, e riaprirli fra mille, guardare in viso lei come sarà, la prole mia come saranno. Amici, conoscenti, nemici (che quest’ultimi semmai ci fossero e Dio sa che vorrei di no), antipatici, simpatici, leali e menzogneri, bimbi, vecchi, anziani, giovani, i cruenti assassini, i deboli, gli ignavi, il sacerdote, il muezzin, il monaco francescano o buddista, tutti lì in fila, come si vuole o una fila lunga, lunga, da qui alla luna che sarà finalmente colonizzata, tra mille anni o esplosa tra i crateri divorati dai meteoriti: tutti là invece o magari, racchiusi in una scatola di latta, molecole compresse dell’umanità intera, a cercar spazio tra la puzza, l’odore della vita, l’ardore spento della giovinezza passata a cercar lumache.

Uno spillo nell’universo la nostra fatica.

Vorrei essere là, infondo al treno, in fondo al binario, per non vedere mai l’arrivo, per guardare indietro, a ricucire gli strappi, strattonato dal controllore che mi invita alla discesa, al cammino verso la punta, verso l’alba, dalla testa che spunta dopo la galleria dove c’è il sole mentre la coda è ancora ferma.

 

Suona il telefono rispondo, sono di nuovo nella realtà

 

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