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Radici in crescita, sequenza giornaliera degli accadimenti, di Ivan D’Agostini- 14 marzo

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Quattordicimarzo

 

Oggi scrivo da fuori, poi nel pomeriggio ricopierò sul note-book queste riflessioni.

Treno, mezzo che avrei voluto prendere prima, ma la pigrizia da un lato e il rigore mio, dall’altro, hanno fatto si che invece salissi sul treno delle nove. Nove, neppure tanto tardi, il convegno sui “cessi” come dice roby, forse non merita proprio questa estrema diligenza. Buffo: ieri sera, stanotte mio Dio, in piedi di fronte a quel mobile bianco, quasi saponoso di effetto colore, morbido e a suo modo elegante, la libreria bassa che ha realizzato il “balle” su mio essenziale disegno (il mio amico falegname, uno dei miei, tantissimi oramai, amici falegnami; perché io coi falegnami ci vado d’accordo, entro in simbiosi, quasi meccanica, mentre disegniamo assieme sul tavolaccio, sulla tavola grezza che poi sarà la nostra comune realizzazione), stavo in piedi a leggere un libro, tolto a caso dallo scaffale scavato nel muro, leggo e penso, guardo bene: Antonio Greppi, Teatro scritti dal 1925 al 1965, quattro volumi della Ceschina, vecchia casa editrice milanese; ma anche la vita è teatro.

Ora sono qui davanti alla macchinetta infernale (il mio piccì), collegato via wireless, – senza fili si dice per i meno adepti, meno esperti – (ma spiegare sempre? è come se a volte mi prendesse la smania di chiarire, di rendere comprensibile anche se il più delle volte proprio da spiegare non c’è nulla, proprio come diceva la simo – bellissima donna – tanti, ma tanti anni fa: “è così, caro è così e basta”. L’esigenza, la mia, di auto confessarsi sempre, e via l’esorcismo che si porta via le amarezze e restano solo le gioie che, dapprima mie, sono poi, anche degli altri), proseguiamo, scrivevo e rispondevo nelle mie location mail, agli impegni di oggi. Stamane, poi, in studio alle otto, e perché cacchio così presto per uscire magari stasera dodici o tredici ore dopo quando il lavoro in realtà nicchia, stenta, ovvero uno sfacelo.

 

Un’occhiata veloce, è sempre lì a volte mi sembra beffardo, non vorrei che diventasse antipatico. Caspita dopo un exploit così perfetto, così equilibrato, tre segni, tre punti quasi equidistanti, quasi un apotema del tondo, il “vassoio” si era dunque manifestato, quelle minuscole foglioline, quei dicotiledoni fragilissimi, quei trasparenti e ritti fusti, questa rilevanza di vita, questa particolarità di densa attività, avevano generato in me la convinzione di cambiamento, una trasformazione che avrebbe pervaso la mia esistenza, da lì a pochissimo.

Modesti, piccoli, ma decisi segni che si sarebbero ben presto accompagnati ad altri e ben più importanti avvenimenti che, similmente alle reazioni a catena di una dinamica termonucleare, avrebbero riempito il “vassoio” di una foresta in miniatura che passo dopo passo, seguendone la crescita, avrebbero suggerito a me spettatore impaziente, le giuste direzioni da seguire, giorno dopo giorno, di questo trambusto che è l’esistenza.

Cazzate, invece niente, non accade niente, dopo quel fatidico ventidue gennaio, niente.

Niente di niente.

Certo i deboli e minuti steli che nei primi giorni, ho seguito quasi ora per ora; di cui ho tentato di educarne la direzione verticale, per la miglior captazione della luce, cosicché il tronco risulti, in sostanza, perpendicolare al suolo, operazione resa concreta dall’adagiare minuscoli massi di argilla espansa (per la grande capacità di assorbire, trattenere l’umidità e di restituirla, un serbatoio per le mie assenze). Massi presi e raccolti con le pinzette e posati sulla bambagia, posti tra le crespe artificiali che ho formato durante la stesa del “terreno”, per dare attrito a questi microscopici ingombri, sono infine cresciuti. Poi non pago, non soddisfatto, forse impaziente, ho iniziato una debole trasformazione sul “vassoio” sono arrivati nuovi semi e con essi uno scuro e friabile terriccio, con cui ho ricoperto il candore della bambagia. La tela, la trama, non basta ora, ho pensato, occorre sostanza e così via, tonnellate di microorganismi, di terreno si sono rovesciate in questo immaginario continente.

Il bordo duro stava lì, come coste inesplorate, oltre il mare delle nostre vite.

La domenica a volte, rimango in piedi, leggermente in disparte, guardo la luce muoversi sulle ombre, sento il rumore della polvere che si adagia tra gli spazi dei granelli, ascolto il crepitio delle cellule che corrono sulla superficie del tronco addensandosi una sopra e dentro l’altra, a volte pure mi allontano: il frastuono è assordante.

In questa visione la mente si stacca dal corpo, ad un tratto sono dentro il “vassoio”. L’enormità delle masse è impressionante, cammino sulla superficie, cerco scampo (ma da chi e da cosa?), forse, tra le pieghe del bordo? No scivolo tra le balze delle mie dune, entro e scovo negli anfratti delle grotte, viste che mai avrei potuto immaginare stando là sopra.

 

Io, lì in quel mondo divento Gulliver della mia realizzazione, un viaggio all’interno del mio corpo, della mia anima.

Ora rischio di essere io stesso il “vassoio”, io stesso contenuto e contenitore di me stesso. Un continuo rovesciamento della pelle che capovolge il senso delle cose. Un sovescio corporale, intimo e sessuale. Ermafrodita dei pensieri.

 

E se fosse questa la soluzione?

 

Tra poco il treno uscirà dalla galleria (ennesima metafora della nostra peregrinazione?), uscirà al sole della giornata. Tra poco scenderò dal treno, camminerò verso il luogo del “vassoio”, aprirò la porta e mi dirigerò lì subito! Immediatamente!

 

E’ come un desiderio sessuale, spasmodica la voglia che esso entri nelle mie pupille, si fissi come immagine nella mia mente. Le sinapsi sono in continuo movimento. Le sinapsi già le sinapsi.

 

 

Sospendo forzatamente alle ore 14,30

Riprendo con somma gioia e passione alle ore 20,10

 

La giornata densa e a volte mielosa si è aggrovigliata attorno a me, di sfuggita ho visto l’anto, un’amica di tanto tempo fa, golosa femmina, insaziabile di tutto, dolci, uomini, sigarette, viaggi, abiti, belle auto, sole e mare, spiagge e musei, arte e niente.

 

Quel niente che sta troppo dentro di lei e che mentre il corpo si dimena l’anima precipita.

 

Niente come quando nei suoi occhi vedevo la sua tristezza. Ma quanti non ti hanno capito? Forse avrei dovuto amarti un po’, avrei dovuto portarti fuori dagli schemi, magari in riva al fiume al di là di quegli schemi che pensavo d’averti suggerito, a volte, a tratti, durante la nostra rigorosa e compita frequentazione professionale.

 

Amavi certo le mie solerti decisioni nel merito. Amavi o ammaliatrice e avevi ammaliato – d’architettura si intende perbacco – pure me, distinto e disinibito artista delle forme. Di fatto non ti presi non ti catturai e sfuggisti, pure con qualcosa di mio, di materiale. Rubasti solo vilmente materia dalle mie scarse e rattoppate tasche e tempo, istanti, brevi, dal mio presente; eppure, eppure non serbo rancore, non nutro odio. Oggi è stato un fulmine, avrei voluto avvicinarmi per riprendere un filo, mi giro e non ci sei più, peccato.

Certo potrei, potrei, potresti, potremmo ma, forse, la fatica è tanta e la voglia di rifare, di rimettere in fila le lettere di parole nuove … non so …

Sto’ dannato sciopero di oggi, la metro chiusa e la passeggiata hanno vestito il “vassoio”.

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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