Diecimaggio
Potrebbe essere un bel giorno per chiudere, così come dicevano i vecchi capi sioux guardando il cielo, scrutando, nel passaggio delle nuvole veloci sopra le guglie aguzze del deserto che li circondava, il destino del futuro. Là in quel deserto, quel deserto che a volte circonda anche noi; spesso, troppo spesso quel deserto che fatichiamo ogni giorno a percorrere e che occasionalmente riusciamo ad attraversare anche in silenzio.
Guardando, osservando e soprattutto origliando il senso della natura, ascoltando nei silenzi protratti della voce, nel rumore dei pensieri che attanagliano le membra e che, parlano e parlano raccontando, certo a solo chi li sa ascoltare, il vero significato della vita.
In quel frangente, che dura un istante, la verità appare e quindi, il vecchio saggio decideva di oscurarsi dalla vista della gente per andare a sedersi là nell’alto del cielo accanto agli dei, però un poco più in basso di quel là, per deferenza e profondo rispetto verso le divinità che, in quanto tali stanno leggermente sopra di noi, giusto per proteggerci (e forse anche per osservare meglio le nostre gesta, come sanno bene Zeus e compagni!).
I semi sono sbocciati, tutti o quasi tutti, questi infiniti spermatozoi che ho lanciato in questi mesi, che ho immerso in quel “vassoio”, godendo come un matto, e ogni volta l’orgasmo mi saliva dalle gambe, una scossa che permeava tutta la pelle, ogni centimetro. Dai piedi distesi, allungati nel lenzuolo di questo talamo in movimento che è il mondo, salendo dai polpacci, per la verità i miei snelli, magri e scarni, dove i muscoli faticano a distinguersi dalle ossa che mi sostengono, a salire su su verso le cosce, attraversando le natiche, scontrandosi con le sensazioni che avrebbero voluto indirizzarsi proprio là ma che invece ho trattenuto, convogliato più avanti, avanti Savoia ancora in alto, la scossa che ha pervaso la spina dorsale, irrigidendola e raddrizzandola, facendomi diventare più alto della statura normale quotidiana, quel sottopelle che dilatate le spalle, allargato la cassa del torace, lì dove sono le scapole, e le braccia che nel fremere per il piacere, intenso e sublime si sono avvolte attorno all’area che l’evento provocava. E la testa, il capo che contiene anche altri di questi pensieri, che finalmente paga dell’accaduto cercava ancora altre emozioni, scrutando di continuo il bruno della terra, il pallore cresposo del cotone di gennaio, il verde brillante delle sbocciature.
E viene da chiedersi: ma, bastano queste emozioni?
Rappresentano la sufficienza?
Devo esplorare altri lidi?
Credo, ne sono convinto che ogni avvenimento sia, è, la meraviglia del nostro mondo, un mondo che troppo spesso fatichiamo a ricordare; il “vassoio” racconta, ogni giorno, ogni istante, la sfera della vita, il progredire, il trasformarsi, le grandi conquiste e le grandi tragedie, lì tutte assieme in uno spazio.
Certo il campo esplorativo, la metafora sarebbe potuto essere applicata anche allo stomaco, nella digestione, quell’altra e pratica metabolizzazione di un costrutto che si modifica, alterandone i principi, e costruisce altre materialità (chissà se a volte mangiando una bistecca rossa del manzo che ha pascolato tra le alture dellavaldaosta, hai pensato che quella ciccia va a finire proprio lì nella ciccia che amerai stasera, quel cunnilinguo ardente che ti mostrerà un’altra carne rossiccia densa di unguenti che colerai nel palato e che un’altra carne, dura e gonfia pregna di sangue, quel sangue, simile al tuo che irrora adesso te e che ha sfamato l’ardore e che prima stava tra le zampe dell’animale), oppure anche nel denso della nostra circolazione sanguigna, dove batteri, cellule virus si confrontano ogni instante, si affrontano in scontri titanici, malattie che combattono la staticità della nostra esistenza, permettendoci così di diventare sempre più forti, sempre più adatti all’ambiente in continua modificazione.
Ma l’albero, il fiore, il seme, sono il sunto, il paradigma di noi stessi.
L’estate è alle porte, attraverserà l’anno sarà siccitosa come quella del duemila, sarà piovosa come dell’anno scorso, sarà … sarà …
E’ il pensiero che rallenta, fa pausa tra un dilemma e l’altro, si concede il riposo per un istante, non la pigrizia bensì la riflessione che è causa delle idee e dei concetti che, nuvole nell’orizzonte della vastità della filosofia, vaga da sempre alla ricerca delle molteplici soluzioni di questo nostro esistere.
E noi come saremo, come saremo tra cinque, trenta, venti, mille e più .… anni, saremo quel seme che cade dalla quercia, là in mezzo al bosco dei noci che piantai cent’anni prima, quell’atomo che si è aggregato nello stomaco della lepre che ha attraversato la radura, scappata dalla volpe che la stava rincorrendo, riparata nel cavo del ciliegio secolare, quello che l’anno scorso ha dato venti chili di ciliegie belle rosse mature, che la marmellata fatta con Luchino è un incanto.
Come saremo in quel tempo che avrà cessato di esistere, in quella dimensione nuova della vita senza la materia?
Già, come saremo?
E, mi vedo fluttuare tra una pagina e l’altra delle nuove foglie, mi riconosco nel rosso del faggio, nella punta aguzza e tagliente delle palme, nell’ago del larice che cade a terra a ottobre, nel marrone scuro della dentellata foglia della vite, dove un riflesso e un po’ d’azzurro dell’ultimo verderame irrorato di agosto, è rimasto. E, mi vedo dentro la linfa che scorre, veloce e piano segnando il ritmo delle stagioni, quelle stagioni che avranno assorbito il modificarsi della temperatura, freddo caldo si sono alternati nel tempo, ritmando le ciclicità infinite dell’esistenza del tutto, scomponendosi in mille frattaglie, universi paralleli, mondi in crescita e in disfacimento. E, mi vedo dentro la materia e fuori nello spazio che avvolge e contiene l’atomo, elettroni, neutroni, protoni, nucleo, tutto un condensato dove il confine tra animato e inanimato è svanito; per quanto nessuno possa garantire che un cristallo in crescita sia effettivamente inanimato.
E, mi vedo osservare il volo delle aquile là in alto nel globo, al margine dei grandi laghi, dove le foreste arrivano oltre il pelo dell’acqua che bagna la riva, dove le rive si affondano nelle radici delle graminacee perenni, le saggine, alte e ruggini a ottobre, quando i riflessi scarlatti degli steli, scrutando quel nuvolame che arriva, carico di pioggia, dal nord estremo, dal punto perno del nostro globo, ondeggiando simulano falò inermi e innocenti.
E mi vedo, seme vagante, con le mie parole che sospinte dal vento della curiosità, feconderanno nuove terre, persino nell’arido e vermiglio deserto del Gobi, anche nelle cavità dei ghiacci millenari dell’Antartide, gireranno attorno alla tenda rossa, saliranno sulle sfilacciature della tela di Amundsen, leggeranno i suoi diari navigheranno su quelle pagine congelate e infine, quando tutto cesserà, quando il frastuono svanirà, quando ci fermeremo, perché ognuno desidera un po’ di riposo, alla fine sarò lì …
Mi vedo lì nel “vassoio”.
Basta mi dico e giro pagina, giro i fogli del libro, quel libro che emerge ogni giorno dalle pieghe della mia pelle, che ogni giorno ispirato o meno dagli avvenimenti, cucio sulle tasche della vita che, sempre di più si riempiono, quelle tasche strabordanti, sgualcite, segnate dalle matite infilate, dai taccuini zeppi di fogli anneriti dagli appunti, dalla testa che mi scoppia tanti, sono i pensieri che spesso e non a volte, fatico a riordinare nel quaderno.
Giro la pagina e continuo, continuo a memorizzare gli eventi, perché tutti i santi giorni sono eventi, sono il punto estremo della nostra esistenza, che se dovesse terminare d’improvviso, anche ora mentre sto’ appuntando il pensiero, è la vetta della giornata, mia e di altri che tra qualche tempo passeranno con me nella favola che ho raccontato sino ad ora.
E’ bel giorno per chiudere ma come al mattino mentre la sveglia si fa vicina al suono e mi dico, guardando le lancette del mio orologio “ancora cinqueminutiivan”, due secondi di pigrizia che rinvigorisce il muscolo, mi concedo qualche riga in più.
Qualche riga in più per raccontare ancora del “vassoio” che continuerà a crescere. Quei semi depositati, posti con cura sopra la coltre del terriccio, adagiati con una logica che ho scavato nel mio sapere, che ho pensato di porre ben sapendo quale sarebbe stato, tra qualche mese il risultato a verde avvenuto. Ben sapendo che quel denso e ricco fogliame, avrebbe addensato il piccolo cielo sopra la minuta foresta. Vedo ora i tenui steli che ritmicamente si piegano di giorno e ritornano diritti nella notte. Questo peregrinare a destra e a sinistra segna un che di musicale, una samba silenziosa, ora, vedo bene il colore diverso del fogliame, gli aceri con foglie decise, i faggi con le minute e frastagliate foglioline, e lì poco a destra quei semi che stanno faticosamente germogliando e il disco del glicine che credo sia lì lì per esplodere.
Ancora qualche giorno poi chiudo con questa storia, non fosse altro per lasciarvi a bocca aperta e invitarvi a sognare a racimolare nel prossimo randagismo nel parco o nel bosco, pure se vorrete nell’aiuola, dove un giorno mi sono perso così come mi sono perso negli occhi marroni della mia Li (perché sono gli occhi che parlano e la profondità prescinde dal colore o forse è solo l’amore che ispira ma questa, davvero, è un’altra storia).
Quindi, tra qualche riga il libro, si chiude, finisce di raccontare e lascia posto al sogno, all’immaginazione, all’ardore.
Chiude con la copertina rigida, credo, termina con la data di stampa, forse in ultima di copertina. Lascia il tutto con l’ultimo fotogramma del “vassoio” suggello del futuro che sarà sovrapposto al passato che sarà asportato (il “vassoio” sarà sezionato e restituito al globo).
Ancora qualche riga dunque e poi un saluto.