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Radici in crescita, romanzo breve di Ivan D’Agostini- 29 gennaio

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Ventinove gennaio

Come da previsione la neve scende ma e il mio”vassoio”, è, sta, là.

La neve scende, siamo in “trasferta” quel genere di trasferta che per noi tale non è più. Le due case non si confondono, reali e autonome, ognuna con la loro specificità, con la loro atmosfera, che nessuna di noi sa scegliere e come attribuirne le valenze, diverse e differenti, ognuna per l’appunto con le sue credenziali buone. Il fuoco nel camino riscalda anche il cuore, quel tronco che brucia, le faville che salgono verso l’alto, quei brulichii di luce che catturano sempre la vista. I ricordi si fanno sempre alla ribalta. Il rosso del cotto, bruno ora con quei tanti anni passati li davanti alla brace calda, ai fumi che si sono rovesciati, anche al grasso delle salsicce di William, le grappe e bicchieri di whisky del Riccardo, le mille cicche che sono finite li nel tentativo, mio di lanciarle in mezzo alla cenere calda, ai piedi di Virginia che cercano tepore dopo il pomeriggio nel campo dell’Albino a slittare.

 

Ora dove sono tutti, siamo cresciuti, cambiati, modificati, morti o scomparsi tra i flutti della vita.  Ma non è questo che mi viene in mente ora, strano ora guardo la neve, fuori lì che copre i fusti della vite che ho potato qualche settimana fa, questi lunghi bracci che la prossima primavera vomiteranno gemme, foglie e steli lunghi e avvolgenti come serpenti fecondi, dalle pance usciranno centinaia di grappoli, grappoli che curerò attentamente, prima che l’oidio e la peronospora me li attacchino, che altrimenti la marmellata diventa impossibile da fare.

neve

Questa neve che pulisce l’aria ma anche le tracce, copre e scioglie i passaggi, fa maturare quel letame, merda prolifica, che ho raccolto, dopo le indicazioni del buon Giovanni, sulla strada verso Pecorara, là dopo la sorgente, sulla curva che piega a destra, mentre il mio tatino, ridendo si schifava della cosa che io raccoglievo con la pala e versavo nelle capienti ceste che avremmo poi adagiato nel baule della macchina. Questa neve che quest’anno ha tardato molto ad arrivare ma che alla fine è giunta. Un manto che odora di un ché di strano, una sorta di odore polveroso, ma buono non fastidioso, quel profumo di guanto di lana caldo che prende le narici quando ne raccogli un palmo e cerchi di dissetarti dopo la corsa sfrenata su con lo slittino “ dai dai papy,ancora una discesa” e  si rientrava a quasi notte, perché d’inverno la sera cala presto e il buio non è così buio, la lavagna bianca sui prati rischiara tutto. E poi la Li che mi sgridava, sempre, perché rientravo con i pargoli fradici, con loro felici e contenti che si spogliavano di fronte al camino acceso ad asciugarsi.

Quella neve che intirizziva le chiappe, quando stavi troppo seduto sul campo a godersi la vista del campanile di Genepreto, là oltre il fiume sul versante opposto al nostro.

Già quella neve.

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