Quel podio olimpico tutto cubano, ma senza bandiera né inno

L'incredibile vicenda sportiva accaduta a Parigi nel salto triplo letta da Teo Parini

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Cos’hanno in comune Andy Diaz, Diaz Fortun e Pichardo? Oltre, ovviamente, ad essere tre formidabili triplisti e aver condiviso il podio olimpico di Parigi giusto qualche settimana fa? Sono cubani di nascita. In altre parole, il salto triplo maschile è affare di Cuba, l’isola ribelle che da decenni subisce la prepotenza occidentale per il solo fatto di ostinarsi a non chinare il capo davanti ai fautori del mondo unipolare. Pichardo, dei tre, è quello numericamente più titolato e vanta medaglie d’oro mondiali ed europee oltre, appunto, al recente argento parigino. Oggi, però, gareggia per il Portogallo. Diaz Fortun, invece, i suoi salti li esegue per la gloria spagnola e le due ultime competizioni importanti in ordine di tempo, Europei ed Olimpiadi, le ha messe in cascina entrambe.

Infine, c’è Andy Diaz, a competere per casa Italia. Sì, perché, non più tardi del febbraio del 2023, il Ministro Piantedosi ha fatto in modo che gli fosse conferita la cittadinanza italiana e, pertanto, a Parigi ha fatto il suo esordio in maglia azzurra. Un esordio, appunto, di bronzo. Un passo indietro. Nell’estate del 2021, Andy Diaz, all’atto di salire sul volo per Tokyo – la sede delle penultime Olimpiadi – faceva perdere le sue tracce. Atterrò in Italia con destinazione Livorno. Il suo gancio è Fabrizio Donato, ex triplista anch’esso, pure lui medagliato. Ora sono le Fiamme Gialle ad assicurarsi i suoi servigi da atleta. Si sa, le medaglie fanno sempre gola. Così, Diaz va a rimpinguare un medagliere italiano già decisamente capiente che, a Parigi, per la spedizione azzurra significa Top Ten e per il CONI l’ovvio ritorno a trecentosessanta gradi.


I tre saltatori sono quindi accomunati da un conseguenza della loro scelta di vita. Hanno beneficiato gratuitamente delle strutture sportive cubane e dei relativi tecnici per diventare campioni, salvo poi fare le fortune di nazioni che ne hanno acquistato la professionalità.

Lecito, più o meno, ma senza dubbio di poca riconoscenza. Antipatico, pure, se si pensa alla fatica che costa alla Cuba poverissima il sacrificio di tenere viva una meravigliosa tradizione sportiva. Figlia della Rivoluzione e di un incrollabile desiderio di Fidel Castro, tutto in condizioni di embargo criminale a cui è sottoposta da decenni. ‘Bloqueo’, per dirla alla cubana, appoggiato dalle stesse nazioni che poi si assicurano la prestazione dell’atleta in cambio di benefici solitamente negati alle medesime latitudini a quelli che non eccellono nello sport. Non si può avere la controprova ma è assai probabile che i tre saltatori non sarebbero diventati tali qualora nati (poveri) altrove.

Legge del mercato, mercificazione dell’uomo e, en passant, dello sport. In un periodo storico nel quale il pensiero egemone occidentale si adopera a demonizzare i confini dipinti alla stregua di catene, in un processo di liquefazione delle strutture sociali e di liberalizzazione selvaggia della circolazione di ogni cosa, uomini inclusi. Cuba, con mezzi economici pressoché azzerati e volontà commovente, è la nazione dell’America Latina con il maggior numero di medaglie olimpiche dopo il gigante brasiliano. Se non è un miracolo, poco ci manca. Tuttavia, prima della Rivoluzione in un paese alla mercé del malaffare, di sport per le strade nemmeno l’ombra. Castro e Guevara, al contrario, lo hanno sempre considerato un aspetto inscindibile dal resto della vita e fin da subito si posero il problema di garantire l’accesso allo sport all’intera popolazione. Ci riuscirono. Via gioco d’azzardo prostituzione e faccendieri; dentro campi da gioco e campioni. Forgiati, questi ultimi, dal socialismo cubano che ci fa così tanta paura.

E pure da una Costituzione antesignana che, a riguardo, include proprio il Diritto allo sport tra i suoi articoli. Così, camminare per le città dall’Avana a Santiago, significa imbattersi in playground a perdita d’occhio e di diversa natura. Tutti gratuiti, tutti a disposizione delle scuole. E sempre parlando di scuola, è interessante ricordare che ogni bambino cubano ha il dovere di imparare a praticare uno sport di squadra e uno individuale di combattimento. Non a caso a Cuba nascono giganti come fu, per esempio, Teofilo Stevenson, l’imperituro pugile che rifiutò milioni di dollari per non mancare di rispetto a milioni di cubani che lo adoravano. Oppure come Mijain Lopez, l’uomo capace di vincere cinque ori olimpici in cinque edizioni diverse dei Giochi. Record mai raggiunto da nessun abitante del pianeta Terra, che se fosse nato a Miami anziché a Herradura avrebbe una visibilità e una fama da rockstar. Ma è cubano. Mijain, lottatore di professione, che non perde mai occasione per ringraziare la patria e i principi morali che la sorreggono per la possibilità di assurgere a leggenda che gli è stata concessa. Insomma, non è mica detto si debba necessariamente fare la scelta di crescere, imparare, usufruire e fuggire. A Cuba li chiamano disertori ma dalle nostre parti fa gioco propagandistico definirli esuli. Ma tant’è.

“Abbiamo formato i nostri atleti per fargli servire il popolo, perché donino allegria, gloria e onore al popolo” ripeteva spesso Fidel Castro disquisendo di sport. Una frase, questa, paradigmatica di come Cuba concepisca lo sport quale lasciapassare per il benessere sociale e che plasticamente traduce il sentimento e l’orgoglio di un popolo intero. Sport uguale vita, ma solo se di tutti.

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