La recente dipartita di George Romero non ha solo privato il mondo del Cinema di un regista, che ha fatto dell’indipendenza da Hollywood e dallo star system il suo marchio distintivo, ma soprattutto di un geniale “artigiano” della settima arte. Pochi sono stati i “colleghi” in grado di rivoluzionare a tal punto un genere – l’horror – così radicalmente da cambiare per sempre gli stilemi e il modello narrativo e, chiunque si sia confrontato in seguito con questo soggetto, si è dovuto gioco-forza confrontare con il suo lascito. Come lui altri registi – John Carpenter, Mario Bava, Lucio Fulci e Dario Argento – hanno fatto del piccolo budget un’indiscussa virtù, dimostrando come sia possibile fare la Storia del Cinema solo attraverso l’inventiva di una buona sceneggiatura, delle studiate inquadrature, un ottimo make-up e una musica all’altezza; eppure, a differenza loro, George Romero è l’indiscusso “padre degli zombi”. Al limite del maniacale – nella sua carriera il regista di Pittsburgh ha girato solo una manciata di film – il suo lavoro è costantemente ruotato attorno ai “morti viventi”. Romero ha letteralmente colonizzato l’immaginario del pubblico occidentale (e non) con questa lenta e inesorabile minaccia, girata in campi lunghissimi o in ravvicinati primi piani dai dettagli truculenti.
Al suo esordio il genere horror era relegato nel ristretto recinto dei b-movies tratti dai grandi classici ottocenteschi (alcuni racconti di Poe, Frankenstein, Dracula), girati già in technicolor dalla Hammer, ai film d’improbabili invasioni aliene o, al limite, ai primissimi esempi di thriller (Psycho, Gli Uccelli, Rosemary’s Baby) di autori (Hitchcock e Polanski) che avevano fatto solo una rapida “incursione” nei territori ancora inesplorati della paura. Romero invece, come lo scienziato di Mary Shelley, fa delle “creature non morte” la quintessenza del suo Cinema. Riprendendo le terribili storie degli stregoni voodoo di Haiti e l’idea base di un fondamentale quanto sconosciuto film degli anni ’50 – Assalto dallo spazio (Invisible Invaders, 1957) – dove una sorta d’invisibili batteri extraterrestri s’impossessano dei corpi dei defunti, Romero inventa lo zombie moderno: silenzioso, lento, claudicante e letale. E lo riprende infrangendo tutti i canoni allora consolidati: stile quasi grezzo, documentaristico, estremo realismo di luoghi sostanzialmente anonimi, ritorno al bianco e nero, macchina da presa costantemente diretta verso l’azione con conseguente dimostrazione e audio della ferocia splatter dei “mostri”; infine sceglie come protagonista, “capo” del gruppo di sopravvissuti, un nero nei primi due capitoli della saga e una donna nel terzo.
È la scelta di un Cinema prettamente cripto-politico quella che Romero attua nei confronti della platea che, man mano che la trilogia iniziale (e in seguito ampliata), diventa sempre più manifesta ed esplicita. Una delle regole non scritte del Cinema è quella per cui lo spettatore invariabilmente s’identifichi nel protagonista e, in questo caso, tout court nel gruppo di sopravvissuti che lottano per salvarsi; eppure proprio analizzando questi personaggi ci si rende conto che siano invariabilmente degli emarginati, degli asociali, se non proprio dei “reietti” della Società che sta andando in pezzi. Coloro che si salvano – o meglio: che resistono il più a lungo possibile – sono persone di colore nell’America razzista degli anni ’60, suprematisti bianchi e bande di motociclisti, militari sbandati o tipici rappresentanti di quel profondo sud arretrato, armati fino ai denti. Infondo sono loro che hanno più chance di sopravvivere nella nuova realtà di un mondo non più civile, dove si è tornati a uno stato selvaggio e hobbesiano, dove a prevalere è in primis la forza, l’astuzia e la violenza. Noi, il grande pubblico, la massa svirilizzata, abituata al consesso civile, siamo i deboli destinati a essere sopraffatti dai mostri e dai più forti. Coloro invece che per scelta o per nascita ne erano già ai margini, soliti a lottare ogni giorno nel quotidiano, sono quelli che più facilmente possono regredire alla “natura selvaggia”, alla “legge della giungla” e affrontare la nuova estrema realtà.
Se già nel primo film – La notte dei morti viventi, 1968 – il vero pericolo da cui guardarsi, più che dagli zombi, è proprio quello dell’egoismo e dalla stupidità dettata dalla paura dei propri “compagni” che, pur di salvarsi, compromettono la sicurezza del rifugio comune; è conL’alba dei morti viventi, 1985, che la metafora zombi uguale consumatori diventa evidente. Il gruppo di sopravissuti trova un’invidiabile salvezza nel centro commerciale, ancora pieno di ogni bendidìo, finché non si ritrova assediato da una folla di morti viventi impossibile da aggirare. “Tornano a fare quello che facevano da vivi” spiega uno dei protagonisti, svelando l’intima natura di questi mostri: una massa indistinta che si scaglia contro le vetrine infrangibili ricolme di mercanzie inutili – non poi così diversa dalle scene che si vedono durante il black friday americano. Lo zombie non è altro che l’estremizzazione del consumatore regredito a uno stato più infantile: le sue uniche necessità sono il mangiare/consumare, nel suo cervello è attiva solo la parte rettiliana, non dorme mai e non ha mai pace. Il pericolo per i sopravissuti non deriva tanto dalla minaccia di un singolo mostro, che è lento e impacciato – ma dall’inesorabile avanzare della massa che ti circonda e infine ti rende uguale a loro, che annulla qualsiasi differenza: vecchi e giovani, poveri e ricchi, bianchi e neri, tutti finalmente uguali nella “zombitudine”.
Il problema è che, neppure sotto l’esiziale minaccia dell’estinzione, i pochi superstiti riescono a collaborare veramente, condannandosi a esser spazzati via. Così chi detiene ancora il potere fa scelte scellerate, l’egoismo emerge implacabile e il sesso torna a essere esclusivamente una merce di scambio. Nell’ultimo grande film – Il giorno dei morti viventi, 2008 – Romero addirittura mette in scena tutta l’assurdità umana della nuova società costruita dai sopravvissuti: una misera e oscena replica del mondo precedente, come se non ci fosse altro orizzonte possibile; così in una Manhattan “in scala”, separata da un ponte e dal fiume dalla terra infestata, gli uomini hanno ricreato una società classista dove i ricchi vivono nei grattacieli e i poveri in uno slum, in cui il denaro – che altro non è che carta straccia – regola ancora i rapporti di forza degli abitanti. In questa situazione ormai senza speranza però è ancora una volta un nero – questa volta però zombie – a “risvegliarsi”, a riacquisire un parvenza di “coscienza di classe” che lo porta a condurre l’esercito di morti attraverso – o meglio: al di sotto – del fiume e a invadere la città.
Dopo Romero i morti viventi sono stati ormai sdoganati al grande pubblico in tutte le più improbabili varianti (da Walking dead a Santa Clarita diet, da Resident evil a World Word Z), rendendoli più veloci, più letali e umanizzando sempre più i protagonisti, persone comuni che si salvano dalla prima ondata di distruzione. Eppure, non fatevi ingannare, i veri zombi siamo noi e non ci salveremmo.
Alvise Pozzi (da www.iltalebano.com)