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di Lucia Rotta ROMA (ITALPRESS) – In Croazia il 5 agosto viene festeggiato con una doppia denominazione, perché è il Giorno della vittoria e della gratitudine alla patria ma è anche il Giorno dedicato ai veterani di guerra. In Serbia e Repubblica Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina, è invece Giorno del ricordo in memoria delle vittime.
L’operazione militare Tempesta, Oluja sia in lingua serba che in lingua croata, a 30 anni di distanza non riesce ancora a trovare una collocazione condivisa nella storia delle Guerre jugoslave, non ha ancora delle cifre ufficiali per le vittime e a livello giudiziario non ha ancora sedato le polemiche, dopo l’assoluzione in appello dei responsabili seguita, a sorpresa, ad una condanna severissima in primo grado presso il Tribunale dell’Aia. Il 4 agosto del 1995 l’esercito croato avviò l’operazione militare Oluja nel territorio dell’allora Repubblica serba di Krajina.
Secondo le stime più accreditate, dal 4 al 7 agosto circa 220.000 civili, ovvero quasi tutti i serbi che vivevano nell’area (pari al 52,3% della popolazione della Krajina secondo il censimento del 1991) vennero espulsi e costretti ad abbandonare le proprie case. Sull’esatto numero dei morti non c’è ancora accordo, e si va dai 217 in totale conteggiati dalla Procura di Stato della Croazia ai 677 solo fra i civili secondo la sezione croata del Comitato di Helsinki. I calcoli della Ong Veritas parlano infine di 1.852 morti o dispersi, di cui 1.078 civili. Originariamente creata per difendere l’Impero asburgico dagli ottomani, la Krajina (letteralmente “terra di confine”) fu nei secoli un territorio caratterizzato da una forte presenza della popolazione serba.
Allo scoppiare della guerra, nel 1991, i serbi della Krajina dichiararono quest’ultima autonoma dalla Croazia, rifiutando al tempo stesso di riconoscere il nuovo Stato che voleva rendersi indipendente dalla Federazione jugoslava. Tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995 Nazioni Unite, Unione europea, Stati Uniti e Russia elaborarono il cosiddetto Piano Z-4, in cui era prevista un’ampia autonomia per le aree a maggioranza serba anche se all’interno del sistema statale croato. Il piano non trovò il consenso delle parti in causa, in un momento in cui si moltiplicavano invece le voci su una concentrazione delle forze militari di Zagabria attorno alla Krajina.
La “riconquista della Krajina“, come si disse allora, fu guidata dai generali Ante Gotovina, Mladen Markac e Ivan Cermak. Il 15 aprile 2011 Gotovina fu condannato dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia (Tpi) a 24 anni di carcere, a fronte di una richiesta dell’accusa di 27 anni. La condanna comprendeva 8 capi di imputazione, fra cui associazione criminale, crimini contro l’umanità e violazione delle leggi e delle usanze di guerra, omicidio, persecuzione e deportazione.
L’accusa aveva chiesto invece 23 anni di reclusione per Markac e 17 per Cermak. Quest’ultimo fu assolto, mentre Markac venne condannato a 18 anni. Il 16 novembre 2012 le Camere d’appello ribaltarono la sentenza, con la completa assoluzione di Gotovina e di Markac grazie a tre voti a favore e due contrari all’interno del collegio giudicante. Si trattò di un risultato inatteso, che portò l’ex procuratore del Tpi, Carla Del Ponte, a dirsi “scioccata” per la sentenza. La Del Ponte, in un’intervista rilasciata pochi giorni dopo al quotidiano di Belgrado “Blic”, osservò che la liberazione dei due generali “non è in linea con la verità” perché la Procura “aveva portato in tribunale dei fatti provati”.
Dal punto di vista giudiziario resta un’altra eredità di quella sentenza d’appello. I giudici cancellarono, infatti, con un colpo di spugna anche il punto della sentenza precedente in cui si stabiliva che nella Krajina era stata commessa, fra il 4 e il 7 agosto, un’operazione di pulizia etnica.
Fuori dalle maglie della macchina giudiziaria, qualche anno dopo, Gotovina fu nominato consigliere speciale dell’allora ministro della Difesa di Zagabria, Damir Krsticevic. La nomina fu proposta nel 2016 dallo stesso ministro e firmata dall’allora premier Andrej Plenkovic, ancora oggi in carica. Non è difficile, alla luce degli avvenimenti passati, immaginare l’eredità dell’operazione Tempesta negli odierni rapporti fra Serbia e Croazia.
Quest’anno, mentre entrambi i Paesi erano impegnati nei preparativi delle rispettive e opposte commemorazioni, il ministero degli Esteri di Belgrado ha inviato una nota ufficiale in cui invitava i concittadini ad evitare viaggi in Croazia fra il primo e il 10 agosto, e a chi già era nel Paese confinante raccomandava di non frequentare raduni ed eventi pubblici “che possono presentare un elevato rischio di incidenti”. Il corrispettivo dicastero croato ha prontamente replicato definendo la nota serba il frutto di “motivazioni legate alla politica interna”, e non dell’analisi di criteri relativi alla sicurezza.
L’intervento ufficiale non è bastato, però, a chiudere altre polemiche, questa volta scaturite dal concerto tenuto a luglio da Marko Perkovic, che come nome d’arte ha scelto quello di un mitra, Thompson. Il cantante, idolo della destra nazionalista croata, a Zagabria ha raccolto 500.000 fan e, nonostante i divieti, si potevano scorgere tra il pubblico simboli nazisti e Ustascia, ovvero del movimento che durante la Seconda guerra mondiale aveva creato in Croazia uno Stato fantoccio collaborazionista.
L’utilizzo del saluto Ustascia accompagnato dal motto del movimento, “Za dom spremni” (Pronti per la patria), è consueto per Thompson. Anche se oggi il saluto è vietato in Croazia, dopo l’ennesimo procedimento giudiziario una corte ha stabilito che Perkovic può utilizzarlo come parte del suo spettacolo. Le sue canzoni e il saluto, secondo il cantante, esprimono “i sentimenti” legati alla guerra degli anni ’90 “contro i serbi”.
Lo stesso Perkovic si era arruolato allora come volontario nell’esercito croato, mentre nel 2003 scrisse una canzone a sostegno di Gotovina, che in quel momento era latitante e ricercato dall’Interpol per essere portato a processo all’Aia. Il movimento filonazista degli Ustascia ha riportato alla mente, sulla stampa internazionale, anche il campo di concentramento di Jasenovac e il Times of Israel non ha mancato di precisare, in un articolo sul concerto di Thompson, che durante la Seconda guerra mondiale “fu eliminato circa l’80% degli ebrei croati, una delle percentuali più alte tra tutti i Paesi europei”.
Insieme a loro c’erano rom, dissidenti politici e serbi. Anche in questo caso, la cifra delle vittime è incerta e anche in questo caso si tratta di una pagina della storia della regione non ancora chiusa con una versione unanime. Pagine, queste, che contribuiscono ad allungare la distanza dall’obiettivo politico prefissato sin dalla fine delle Guerre jugoslave, la cosiddetta “riconciliazione regionale” vista dalla comunità internazionale come unico antidoto alla fragilità dei Balcani.
E sul terreno, nonostante i tre decenni trascorsi, resta la difficoltà di ricostruire appieno la convivenza in quella che era la Krajina contesa. L’uso dell’alfabeto cirillico, tradizionalmente legato alla lingua serba, è stato un tema dibattuto per anni, anche a colpi legislativi che hanno portato a forti proteste per la decisione di Zagabria, nel 2013, di affiancare l’alfabeto latino nelle scritte ufficiali delle aree a maggioranza serba.
Il 29 dicembre 2022 la città di Vukovar, una delle storiche roccaforti della comunità serba, ha invece abolito l’uso del cirillico nei documenti ufficiali. Nell’ultimo censimento, infatti, il numero dei residenti di etnia serba era sceso sotto la soglia del 30%, una percentuale prevista dalla legge croata al di sopra della quale si può rivendicare l’uso della propria lingua madre. La stessa decisione del Consiglio comunale di Vukovar testimonia indirettamente la difficoltà di ricomporre la comunità preesistente al conflitto e di garantire un reale ritorno dei civili fuggiti 30 anni fa.
I festeggiamenti del Giorno della vittoria sono stati anticipati in Croazia, quest’anno, al 31 luglio, con una parata militare a Zagabria in cui hanno sfilato ben 3.400 fra militari, forze di polizia e veterani. Il 3 agosto la Serbia ha commemorato invece le proprie vittime a Sremski Karlovci, in una cerimonia che ha contato anche la presenza del leader dell’entità serba di Bosnia, Milorad Dodik. Il presidente del Partito democratico serbo indipendente in Croazia, Milorad Pupovac, ha commentato l’atmosfera attorno alle celebrazioni croate osservando che “non si è discostata molto” da quella degli altri anni.
“Registriamo discorsi d’odio contro i serbi da anni. Sono atti spesso legati all’eredità Ustascia ancora presente in Croazia, ma mentre prima una tale politica era tenuta ai margini, ora fa parte del mainstream“, ha dichiarato in un’intervista alla Radiotelevisione serba. Chiudere questa ennesima pagina controversa della storia balcanica, secondo il rappresentante politico dei serbi di Croazia, vorrà dire “indagare adeguatamente i crimini di guerra” commessi durante l’operazione Tempesta.
“Il rilascio di Gotovina, Markac e Cermak è stato visto come la fine dell’idea che qualcuno potesse essere ritenuto responsabile di questi crimini. E questo è un grave problema per la giustizia internazionale e per la stessa Repubblica di Croazia”, ha concluso Pupovac.
Oggi 5 associazioni per i diritti umani hanno manifestato a Zagabria per rendere omaggio, come spiegato dagli organizzatori, alle vittime e per richiamare l’attenzione “sulla lunga elusione dei crimini di guerra commessi durante e dopo l’operazione Tempesta”.
L’azione è stata organizzata dal Centro per le donne vittime di guerra (Rosa) di Zagabria, dall’Associazione per la ricerca sociale e la comunicazione (Udik) di Sarajevo, dal Centro per il coraggio civico di Zagabria, da Documenta e dalla Rete delle donne croate. “I crimini commessi nell’operazione Oluja sono responsabilità della Croazia. La presa di coscienza della società deve fondarsi sui fatti, relativi ai crimini di guerra commessi e alla politica di pulizia etnica attuata”, scrivono gli organizzatori in un comunicato congiunto.
Trent’anni dopo, non esistono ancora dati completi e ufficialmente accertati, proseguono. “Chiediamo una raccolta sistematica, la verifica e l’unificazione di tutti i dati – sia da fonti governative che non governative – al fine di stabilire fatti accessibili all’opinione pubblica”, conclude l’appello.
– Foto Tanjug –
(ITALPRESS)