Omaggio a Rafa Nadal, il gladiatore di Manacor che ha deposto spada (e racchetta)

Teo Parini 'rilegge' l'immensa carriera dello spagnolo

+ Segui Ticino Notizie

Ricevi le notizie prima di tutti e rimani aggiornato su quello che offre il territorio in cui vivi.

Ieri Rafa Nadal ha annunciato il suo imminente ritiro. La Coppa Davis da disputare a stretto giro nella sua Spagna a Malaga sarà, pertanto, l’ultima fatica da tennista professionista del Gladiatore di Manacor. Hai voglia a dire che, anche considerato tutto il suo contesto ormai compromesso, ce lo si aspettasse da un momento all’altro, quando succedono certe cose non si è mai pronti abbastanza. E se gli accadimenti importanti nella vita sono altri per fare di un pensionamento una tragedia – ma che scoperta – è altrettanto vero che, per chi si nutre di sport e non si vergogna quando gli scappa una lacrima per una vittoria o per una sconfitta, i campioni finiscono sempre per essere amici di famiglia, una irrinunciabile abitudine, la clessidra che scandisce i tempi. Un pezzetto di noi, con il ritiro che, pertanto, assurge ad un piccolo lutto.

Sembra ieri ma sono vent’anni che le vicissitudini sportive di Nadal accompagnano la nostra quotidianità. Lui, all’epoca, era un ragazzino predestinato con i bicipiti d’acciaio e la chioma folta; noi, invece, ragazzini e basta. Lui, con sacrifici immani e rinunce che in troppi si ostinano a non vedere s’è fatto campione epocale e noi, crescendo con fortune alterne, abbiamo avuto il privilegio di poterlo ammirare, immaginandolo eterno senza fare i conti con Chronos. Abbiamo fatto la sua conoscenza all’inizio del nuovo millennio in piena monarchia federeriana – anche se, a dirla tutta, il suo nome campeggiava da almeno un lustro sui taccuini degli aficionados – e da quel momento sono state diverse le certezze solo apparentemente immutabili che, nell’universo tennis, hanno finito per essere riscritte. Rafa, infatti, è uno di quelli che, se proprio la secolare disciplina non l’ha inventata, quantomeno l’ha spinta a transitare su orbite mai esplorate prima. Due, in colpevole sintesi giornalistica, gli aspetti caratterizzanti della sua carriera.

Il primo. Intanto, nessuno ha mai incarnato quanto lui il dogma del rifiuto della sconfitta. Nadal non accetta di perdere nemmeno a rubamazzo con suo figlio, figuriamoci a tennis contro uno che teoricamente fa il suo stesso mestiere. Vittoria o morte, infatti è qui malconcio nelle articolazioni ma vivo, vegeto e con l’occhio del killer dei giorni belli. La sua capacità di restare ancorato al match, qualunque cosa accadesse al di là della rete, è abbacinante cifra stilistica di un campione che può vantare di non aver mai sbagliato una scelta sul playground dall’età di otto anni. Un’enciclopedia.

Il secondo. Nadal è la dimostrazione empirica che diventa speranza. Nemmeno il più grande talento tennistico di questo o di eventuali altri mondi, Roger Federer, ha potuto far valere nei suoi riguardi una supremazia tecnica evidente e stilistica annichilente. Macché. In tal senso, Nadal ha vestito i panni della kryptonite di Superman, demolendo un pezzetto alla volta le certezze di un rivale, strabiliante ma reso di cristallo, che, se in sua assenza era considerato inavvicinabile, ha spinto spesso e volentieri al dramma. Quello del pianto di Melbourne nel 2009, per esempio, scalpo che fece seguito all’ancor più clamoroso sacco di Londra dell’estate precedente, quando ad essere violato fu l’erboso e sacro giardino di Wimbledon. Bienno, questo, che ne rappresenta l’Everest, l’acme.

Il mondo del tennis, quindi, aveva chiara in mente una cosa che, sebbene mutuata dal soccer, era fottutamente vera. Sono i ricami a vendere i biglietti, ed è anche comprensibile sia così, ma è la concretezza che, poi, solleva i trofei. Rafa, in quei giorni da semi-dio, continuava a non essere il più bravo, aspetto che si immagina non lo abbia mai sfiorato più di tanto, bensì il più forte al mondo. Così umile e formichina da aggiungere, ad ogni off-season, sempre qualcosa di inedito al proprio gioco; l’attitudine vincente che ha trasformato negli anni un giocatore dominante, perché ancorato non le unghie a poche ma granitiche certezze, in uno assai più completo di quanto in molti, addetti ai lavori inclusi, abbiano mai realizzato. Confondendo sciaguratamente quel che fa il corpo e la relativa gestualità, nel suo caso rivedibile in quanto ad eleganza, con ciò che, invece, compie la pallina una volta lasciate alle spalle le corde. E se, ancora nel 2024, in molti hanno fissa in testa l’idea del Nadal-pallettaro-arrotino, il diretto interessato, noncurante della tediosa miopia, ha saputo progredire in ogni settore del gioco. Così, al terrificante dritto mancino che è patrimonio dell’UNESCO alla voce tempesta, nonché generosa concessione di madre natura, Rafa ha edificato intorno miglioramenti copernicani. E se con il cross di rovescio ci ha vinto almeno un’edizione di Wimbledon meravigliosa nel suo epilogo, dopo che da ragazzino quel colpo non lo giocasse praticamente mai, la sua competenza di volo ha scalato le classifiche di specialità fino a issarsi nei pressi della seconda piazza, dietro solo alla nemesi svizzera. Del resto, qualcuno si ricorda di aver mai visto Nadal sbagliare una volée negli ultimi tre lustri? E si potrebbe dire la stessa cosa anche per il servizio o per lo slice, così così agli albori dell’epopea, che hanno finito per diventare fattori decisivi del suo gioco.

Rientra tutto in quel saper sbattere il ‘no’ in faccia alla sconfitta di cui sopra, senza paura di doversi rimboccare le maniche ogni volta per tenere a bada insidie sempre diverse. Pare noioso in questa sede ricordare i suoi numeri eccezionali, magari quelli in Bois de Boulogne teatro di quattordici trofei dei Moschettieri, o quelli più generali. Ventidue Slam in trenta finali, per esempio, o gli anni da numero uno del ranking. Ce li stanno sciorinando in tanti più bravi di noi a far di conto. Molto più interessante è sottolineare un altro merito, quello di aver condiviso con Federer, sempre lui quale tassello imprescindibile, una delle rivalità sportive più iconiche di sempre, il Fedal. Nome che è spartiacque ed ora anche definitiva nostalgia. Divisivo al punto da ingenerare fazioni di tifosi feroci. Nadal contro Federer, allora, è Larry Bird contro Magic Johnson, Coppi contro Bartali, Senna contro Prost, Girardelli contro Zurbriggen. Parte della storia di quei dualismi che calcistizzano una disciplina, proiettando il confronto tecnico e stilistico in una dimensione planetaria.

Il dritto colpito a mo’ di lazo durante il rodeo, più riconoscibile che ortodosso, il top spin da cinquemila giri al minuto che fa schizzare i rimbalzi in cielo, la routine maniacale di preparazione al servizio, i tic nervosi, le bottigliette d’acqua impilate con cura euclidea al cambio di campo e, poi, quella riga bianca da non calpestare mai, i ‘vamos’ a squarciare la quiete tennistica dei ground e quella sensazione di infaticabilità emanata poro per poro, hanno finito per essere anche la nostra rassicurante normalità. Quella di un tennista che, innestata la velocità di crociera, l’ha mantenuta per anni senza mai cedere di un millimetro. E poco importa che Federer sia stato più bello o Djokovic più vincente. Rafa lascia il tennis giocato con le stesse medaglie al petto dei compagni di avventura di una irripetibile, o quasi, golden age. Quella, appunto, del triumvirato, ma anche di Murray, di Wawrinka, di del Porto. Di un tennis che mandava in archivio le stagioni di modesto appeal appena vissute.

“Fai il lavoro che ami e non lavorerai mai un giorno nella tua vita”, diceva Confucio. Passione ancestrale. Il motivo per cui Rafa Nadal ha sempre lavorato come un dannato senza accorgersi di farlo, che l’ha sostenuto fino all’ultima goccia di energia nel serbatoio. Nadal lo si è amato proprio per questo, questione di pedagogia. Il suo insegnamento, che trascende l’importanza di un set vinto o di un dritto imprendibile, è compendiato a dovere in una massima vergata da Rino Tommasi. Una partita – lo ripeteva spesso il Maestro – finisce soltanto quando l’ultima pallina fa il secondo rimbalzo. Rafa, quella pallina, l’ha sempre raggiunta in tempo utile per darsi una nuova chance, poi un’altra, poi un’altra ancora. Che, a guardarlo competere animato da una dedizione inesausta, veniva davvero voglia di provare a fare lo stesso nella vita.

Grazie di tutto, diavolo di un Rafacito, e buona pensione.

■ Prima Pagina

Ultim'ora

Altre Storie

Pubblicità

Ultim'ora nazionali

Altre Storie

Pubblicità

contenuti dei partner