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Omaggio a Leone di Lernia, disprezzato dai colti (di Camillo Langone, Il Foglio)

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Ticino Notizie omaggia Leone di Lernia con una splendida articolessa del supremo Camillo Langone, apparsa oggi sul Foglio

Proprio l’altro giorno passavo in via Ripamonti e mi chiedevo come stesse Leone Di Lernia. Non molto bene, si è saputo. Passavo in via Ripamonti e mi chiedevo come fosse possibile vivere su questa lunga strada disadorna che sembra andare da Milano al nulla, una strada che forse sarebbe piaciuta a Testori, e dove prima di Leone abitò, però brevemente, Domenico Rea, altro meridionale sanguigno, e nelle cui vicinanze il poeta Pagliarani pose l’abitazione della ragazza Carla, un’impiegatuccia, nell’omonimo poema del ’62 (guarda caso l’anno in cui il futuro comico-cantante sbarcò ventiquattrenne a Milano da Trani).

 

E invece, pensandoci ora, l’interminabile disameno stradone ha il melanconico vantaggio della direzione sud e, cammina cammina, conduce precisamente a quella Puglia che a Leone diede vita e lingua ossia fortuna. Si arenavano qui molti pugliesi, l’eccellente pittore Pietro Capogrosso mi ha appena raccontato che dalle parti di viale Bligny, dove via Ripamonti si affanna a raggiungere il centro, c’era un bar gestito da tranesi ed era appunto un bar frequentato dall’illustre tranese morto ieri a Milano. Veniva avvistato anche dalle parti di Cinque Giornate, altro ritrovo di tranesi nostalgici forse a causa di un altro bar: prima che tutto cadesse in mano a pakistani e cinesi ci fu un tempo in cui a Milano i fruttivendoli erano di Bisceglie e i baristi di Trani. Ci fu il tempo a Milano anche dei trani a go-go, come sa chiunque abbia amato Giorgio Gaber, ma quello era un tempo precedente in cui di Trani non erano i gestori bensì il vino.

 

Nella sua piccola città sul mare lo videro tornare, Leone, fino agli anni Ottanta, vascheggiava in piazza Bisceglie e poi andava a farsi una pizza da Giovina. Entrava ed era un fuoco di battute e battutacce dialettofone, e quelli che ridevano poi lo deridevano alle spalle e forse non soltanto alle spalle, sta di fatto che nei Novanta non si vide più. Io ad esempio cominciai a incontrare Francesco Giorgino: per nulla dialettofono. Infine Trani divenne l’indirizzo di Riccardo Scamarcio che con Valeria Golino affittò una casa di miei parenti, con una scala stretta e ripidissima, a fianco della Madonna del Carmine, sul porto.

Lo deridevano, l’ho detto e lo ridico: nemo propheta in patria è un’espressione che gli si adatta benissimo. “Anche i parenti si vergognano di me” mi disse seduto a una tavola calda di via Moscova (chiaramente non era un gourmet, era uomo da pasta e fagioli, da panzerotti fritti, da calzoni, da lampascioni, e com’è ovvio da cozze pelose, ben prima che i mitili villosi fossero portati alla ribalta da Michele Emiliano, questo suo sosia in politica). Io no, non lo deridevo, anzi cercavo di difenderlo con la Trani laureata, inorridita da questo suo figlio che aveva fatto appena la terza media perché di famiglia povera, residente nel buio e decrepito quartiere medievale (Via San Giovanni Russo, laterale di via Beltrani). Il suo vernacolo non era da salotto, i testi delle sue canzoni erano pieni non di doppi sensi bensì di sensi unici, unica direzione la carne plebea.

 

Qui un Mauro arrapato: “Moru’, lieve ‘u ginuocchie da ret / ca’ cuss ginuocchie nan e’”. Qui una ragazza dai seni pesanti: “Menenne menenne / quatte chile so’ le menne”. Eccetera. Ovviamente la causa era persa, come avvocato non ero convincente forse perché non del tutto convinto, io stesso trovavo faticoso il turpiloquio che l’accusato produceva senza requie (a pranzo, a cena, sul lavoro, in pausa, al telefono, sempre, in una totale fusione arte/vita). Però lo apprezzavo linguisticamente, un po’ come lo avrebbe apprezzato Pasolini ossia come retaggio di un mondo pre-televisivo, dunque un mondo morto. Che lui a un certo punto sembrò risuscitare sebbene nella forma degradata della parodia canora e del lazzo radiofonico. Con un coraggio appunto leonino che gli invidiavo e che gli veniva dalla fame di una lunga gavetta, da un successo sempre parzialissimo, sempre minato dal disprezzo degli inutilmente colti.

Camillo Langone (tratto da Il Foglio)

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