In omaggio allo scomparso Gastone Moschin, l’indimenticato architetto Rambaldo Melandri di Amici Miei, proponiamo questo pezzo di Barbadillo
Quando il primo capitolo della saga di “Amici miei” esce nelle sale è l’agosto del 1975. È un’altra Italia, e fuori dai cinematografi c’è poco da ridere: l’odio politico gonfia le strade di sangue, mille rivoli di tragedie che uniscono cuori neri e rossi. Il parlamento risponde col pugno di ferro della legge Reale. Intanto, come nel resto dell’Occidente, il Paese inizia a fare i conti coi primi sequestri di eroina e i primi morti di overdose, e con una delinquenza che non si fa più scrupolo a sparare: perfino il cinema cambia registro, dai mariuoli scanzonati de “I soliti ignoti” al grand guignol dei poliziotteschi.
I cinque “zingari” del film, in un’Italia come quella, somigliano ai personaggi del Decamerone in fuga da una Firenze appestata. Ma la loro è un’evasione dalla quotidianità, non da una realtà sociale che rimane invece ben presente, sullo sfondo. Sono gli ultimi fuochi della commedia all’italiana, di quegli straordinari racconti la cui cifra consiste, secondo le parole di Mario Monicelli, nel “trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici”.
È una stagione irripetibile per il cinema italiano, reduce dall’ennesimo Oscar con l’”Amarcord” di Fellini. Cinecittà lancia fino a trecento pellicole all’anno vendendo cinque-seicento milioni di biglietti. I film, soprattutto le commedie, nascono dallo scambio continuo tra sceneggiatori, registi e attori, un gruppone unito da legami collaudatissimi anche sul piano umano.
Geniale affiatamento creativo
“Amici miei” resterà uno dei prodotti più riusciti di quell’affiatamento creativo: il copione lo firmano Tullio Pinelli e l’accoppiata Leo Benvenuti-Piero De Bernardi, autori nello stesso 1975 del primo “Fantozzi”. Il regista dovrebbe essere Pietro Germi, che però muore prima dell’inizio delle riprese (si dice che il titolo del film sia un omaggio al suo commiato: “amici miei, ci vedremo, io me ne vado”). Lo sostituisce Mario Monicelli, cui si deve l’ambientazione fiorentina di una vicenda che Germi avrebbe voluto bolognese.
Ironia tutta toscanissima
Scelta felice, anche perché molte delle beffe sono vere e sono toscanissime. Il conte Mascetti è modellato sul personaggio di un nobiluomo livornese, tale Giorgio Menicanti, che fece davvero un viaggio di nozze di due anni e mezzo con la moglie e un orso bruno al guinzaglio, mangiandosi il patrimonio suo, quello della moglie e anche quello dell’orso. Così come ci fu un architetto del comune di Firenze che, innamoratosi di una donna sposata, chiese ad un noto avvocato “la mano di sua moglie”, proprio come fa il Melandri col Sassaroli in una delle scene più grottesche. È vera anche la storia che sembra più finta, quella della banda di gangster che perseguita un odioso pensionato: a Firenze, per un anno e mezzo, un barista, un notaio e un magazziniere tennero in piedi una burla identica ai danni di un anziano inconsapevole.
C’è molto di autentico, insomma, in quel gruppo di amici cinquantenni diversi in tutto ma uniti dal “gusto difficile di non prendersi mai sul serio”, neanche quando le avversità della vita presentano il conto: con la morte del Perozzi nel primo atto, con la malattia del Mascetti nel secondo, con l’incedere della vecchiaia e dei suoi mali nel terzo.
La malinconia
Malinconia da crepuscolo della commedia, che De Bernardi riassumerà alla perfezione in un aneddoto: “Mi hanno riportato che una bambina di nove o dieci anni, vedendo Amici Miei, si è spaventata e si è messa a piangere, e dal suo punto di vista ne aveva tutte le ragioni. Degli adulti che si comportano così, a pensarci bene, non sono per niente allegri. Il tema della morte, della paura della morte e delle burle che la tengono a bada è il basso continuo del film. Una volta, mentre si inventava, Leo [Benvenuti] disse: «Ma come finisce questa storia?». E io risposi: «Uno muore»”.
Ieri sera a Firenze si è festeggiato l’anniversario con una proiezione del film sulla facciata della basilica di Santo Spirito, proprio dove nel film si tiene il funerale del Perozzi. Segno di una fama che non accenna a diminuire né nel capoluogo toscano né altrove, se ancora adesso si trovano ventenni che recitano a memoria l’intero repertorio degli scherzi, dalla supercazzola al vigile urbano al coro dei “madrigalisti moderni”, dagli schiaffi in stazione al tentativo di raddrizzare la torre di Pisa.
In questi decenni non si è perso il gusto di ridere, tanto meno di evadere, semmai la capacità di inventare film in grado (anche) di far ridere. Forse perché, come ricordava Monicelli nei suoi ultimi anni, in Italia non ci sono più registi che prendono l’autobus, neanche quando non volano tra Cannes e Hollywood.
Andrea Cascioli
(da www.barbadillo.it)