Matteo Berrettini è una storia tutta particolare che trova sempre il modo di darsi un lieto fine, anche quando sembra che sia difficile venirne a capo e il cattivo delle fiabe si palesa sotto forma di un ostinato malanno fisico accompagnato dal codazzo di detrattori che spuntano come funghi dopo il temporale. Molti, troppi, si dimenticano che, ben prima di Jannik Sinner, ad aprire questa golden age del tennis italiano ci aveva pensato proprio Matteo, capace di fare una semifinale a New York e, soprattutto, una finale nel tempio di Wimbledon, fermandosi a due set dal trionfo a causa dell’ultimo vero Djokovic. Oltre a riportare un azzurro a disputare le Finals, che sono prerogativa dei migliori otto tennisti del globo, e ad incamerare un buon numero di tornei cosiddetti minori ma che minori ovviamente non sono.
Nove, con quello vinto ieri a Gstaad che ha un significato tutto particolare perché proprio nella località Svizzera il tennista romano vinse il suo primo ATP della carriera nell’estate di ormai sei anni fa. Un cerchio che si chiude e che tanto sa di ritorno in grande stile. Matteo non ha le doti da predestinato di Sinner o il talento epocale di Musetti ma ha scolpita nel dna una dote che non si allena, c’è o non c’è. La garra charrua, quell’attitudine feroce alla battaglia e a rigettare la sconfitta con ogni molecola, che può trasformare un buon giocatore in un campione. Così, Matteo, i cui limiti tecnici e di mobilità non sono aspetti marginali, si è garantito un respiro da tennista di vertice che ha per le mani la possibilità di battere chiunque qualora ne capiti l’occasione. Tsitsipas, per esempio, regolato nella semifinale di sabato, prima della passeggiata contro il più modesto Halys maltrattato da Matteo nell’atto conclusivo. E se Gstaad non vale una messa, come potrebbe valerla la Parigi olimpica o il prossimo Slam, vale comunque la regola per la quale vincere aiuta sempre a vincere e l’iniezione di fiducia potrà essere salutare per un ragazzo che viene da almeno un biennio maledetto, nel quale sono più le volte che ha frequentato l’infermeria piuttosto che il campo.
Fisico imponente, forse troppo, e fragile come cristallo, il suo. In un periodo storico in cui è ormai acclarata la necessità di ridurre all’osso la massa – sono ormai lontani i tempi dei bicipiti oversize di Nadal – tutto appannaggio della velocità, Berrettini porta a spasso per il ground una mole da culturista che, tra qualche ovvio beneficio in termini di pesantezza di palla, è fonte di ripetute noie muscolari che minano regolarità e costanza, costringendolo a continui pit-stop e precipitose rincorse alla condizione ottimale. Quanto c’è di peggio per uno sportivo. In ogni caso, già a Wimbledon si erano intravisti segnali incoraggianti, nel secondo turno perso contro Sinner ma disputato pressoché alla pari con il numero uno al mondo, e la settimana svizzera non ha fatto altro che confermare il trend positivo. Ottima notizia per il prosieguo della stagione con qualche rimpianto per la sua assenza nel torneo olimpico alle porte, considerato che Matteo non farà parte della selezione azzurra. Ma è dall’estate americana, quella sul cemento, che sono auspicabili maggiori soddisfazioni, fisico permettendo, ovviamente.
Berrettini, considerato erbivoro per via dei risultati lusinghieri conseguiti sui prati dove per ben due volte ha sollevato il trofeo del Queen’s, è in realtà giocatore completo, buono per tutte le superfici. La potenza del binomio servizio-dritto, infatti, è arma letale che non conosce intoppi, sia che si parli di erba che di mattone tritato; cifra stilistica, quest’ultima, di un giocatore che riesce a sopperire ad un lato sinistro deficitario, quello del rovescio, arroccando il proprio tennis ai suoi evidenti punti di forza. Un po’ come seppe fare a suo tempo Andy Roddick, capace di insidiare il miglior Federer con un millesimo del talento del basilese, che per caratteristiche e risultati lo ricorda abbastanza ed è un gran complimento. In una disciplina complessa e psicotica come il tennis, l’idea di ridurre i colpi a bassa percentuale per giocare con ripetitività quelli a maggiore certezza, sopperendo alla carenza con il surplus d’agone, se non è vincente è comunque la garanzia del migliore risultato possibile. Nick Bollettieri, a riguardo, ebbe modo un giorno di rincuorare la mamma di Jim Courier, preoccupata da quel rovescio che proprio non ne volesse sapere di progredire, dicendole che suo figlio sarebbe diventato il giocatore più forte al mondo senza mai colpire una palla dal suo lato sinistro. Successe davvero. Fatte le debite proporzioni, Matteo si è costruito un tennis di prima fascia sulla stessa falsariga. Volontà più chiarezza di intenti, così l’Italia, proprio grazie a lui, ha aperto il periodo più abbacinante della sua storia tennistica.
Ma si sa, gli aficionados, a maggior ragione quelli più occasionali, hanno la memoria corta e dal carro salgono e è scendono ad ogni soffio di vento. Noncurante di tutto ciò, Matteo non ha mai smesso di pensare di poter essere di nuovo un fattore di questo tennis e ancora una volta ha avuto ragione lui. Che non ha smesso di lavorare alacremente anche quanto lo sconforto avrebbe potuto prendere il sopravvento. Probabilmente non sarà lui a trionfare a New York, anche se chi può dirlo, ma chi vorrà farlo potrebbe doversela vedere con lui e, ne siamo certi, non avrà vita facile. Bentornato, Martello: la pallina ha ripreso a sanguinare.