Nba: anello per i Boston Celtics, nel nome di Larry Bird da West Baden Springs

Il successo di una franchigia iconica

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Porto di Derry, Irlanda. Un parassita che ha distrutto il raccolto delle patate porta in breve tempo allo sterminio di almeno un milione di persone private della principale fonte di nutrimento. Se non è il venti percento di un intero popolo, poco ci manca. L’anno, su per giù, è il 1845 e la carestia, per la causa dei gaelici è se possibile ancora più terribile di cinquecento anni di occupazione inglese dell’isola verde. Chi sopravvive, racconterà di cadaveri ammassati ai bordi delle strade con i fili d’erba in bocca. A qualcuno sarà venuto in mente di domandarsi perché alcuni cognomi tipici irlandesi iniziano con la classica O apostrofata e altri, invece, sono identici ai primi ma senza l’appendice iniziale. Le mense dei poveri allestite dagli invasori inglesi, in quei giorni terribili, concedevano un pasto agli indigenti d’Irlanda solo in cambio della modifica al cognome, nell’obiettivo dichiarato di colpire a morte l’identità di un popolo.

A proposito. La peronospora, il fungo killer di cui sopra, attaccando le patate significò morte certa per la massa dei contadini sostanzialmente per un motivo: sui fazzoletti di terra aridi e malconci rimasti nelle mani degli autoctoni dopo la razzia inglese non poteva crescere altro. Intanto, carichi di grano irlandese lasciavano l’isola celtica verso l’Inghilterra. Un genocidio. Dal porto di Derry le navi che si riempiono di disperati in cerca di sopravvivenza e fortuna altrove cominciano a fare rotta verso le coste americane. In chi resta, intanto, comincia a ribollire il sangue della rivolta, preludio all’indipendenza che verrà e al tributo di sangue versato per il sogno di libertà. La diaspora fa sì che oggi siano circa settanta milioni gli uomini di origine irlandese disseminati nel mondo. Di questi, o meglio dei loro antenati, in molti attraccano sulle coste del Massachussettes. La città di Boston che verrà è soprattutto opera loro. Cattolici, discriminati, costretti alle mansioni più umili, con scarsa aspettativa di vita e, figuriamoci, di istruzione. Non bastano i linciaggi, a vincere è la tempra della working class capace di reinventarsi al di là dell’oceano e, così, Boston si edifica intorno all’orgoglio irlandese degli emigranti in fuga dallo sciovinismo inglese.

Anno 1946, il tema di fa decisamente più leggero. Negli States vede la luce quella che diventerà la lega basket per antonomasia, la NBA allora BAA. Un progetto embrionale nato dall’unione di undici proprietari di arene dedicate allo sport tra i quali tale Walter Brown è titolare del Boston Garden e della nascitura franchigia cittadina. Serve un nome per il debutto. 5 novembre, l’anno è il medesimo e la scelta è pressoché immediata: Celtics, Boston Celtics. In onore degli emigranti d’Irlanda e alla caparbietà di uomini capaci di dare un volto e un’identità riconoscibile alla più antica città degli USA. Identità, appartenenza e orgoglio. Lo si percepisce anche dal fatto che la squadra di basket cittadina sia tutt’oggi l’unica dell’intera lega professionistica americana a non aver mai modificato nome, sede e logo. Tutto scolpito nella roccia. Certo, la simbologia. Innanzitutto c’è il leprechaun, gnomo tipico del folklore irlandese. Quello che passa la giornata a fare le scarpe per le fate e fare scherzi agli esseri umani. Di fatto, lo stereotipo con il quale venivano raffigurati gli irlandesi nell’immediato dopoguerra. Un uomo, quindi, con una palla a spicchi che gli gira sul dito indice, la pipa in bocca e il bastone. Quest’ultimo, nella mitologia un po’ sostegno e un po’ arma. Il trifoglio sul petto, manco a dirlo, e tanto verde tutt’intorno, il verde Irlanda. Il resto è storia recente.

Recentissima, che significa la vittoria nella notte appena trascorsa del diciottesimo titolo NBA, ovviamente un record, a distanza di sedici anni dall’ultima volta. Il successo sportivo dei Celtics di Joe Mazzulla, il più giovane coach a condurre una squadra al sospirato anello che è archetipo di trionfo cestistico, è allora l’occasione per questo lungo back in the days. Un intreccio di sport e vita, spesso la stessa cosa, che compendia origini tribolate, l’orrore della prevaricazione tra uomini, il dramma dell’abbandono della propria casa e delle migrazioni, lo spirito di rivalsa sociale, l’orgoglio di un popolo, il senso di appartenenza e una matrice identitaria che non si spezza nemmeno se sferzata dall’odio. Se è vero che l’occasione per ripercorrere a ritroso la genesi di un popolo, di una città e, perché no, anche di una squadra di basket è di quelle che più frivole e consumistiche non si può, il carrozzone d’oro dell’NBA, è altrettanto vero che ogni occasione dev’essere buona per ricordare da dove si viene. Dalla disperazione delle navi in uscita dal porto di Derry, in questo caso, fino alla East Coast americana, passando per il sentimento collettivo tutto irlandese – il pride – che la maledetta diaspora ha forgiato nell’acciaio.

Federico Buffa su Larry Bird:

https://www.youtube.com/watch?v=KXDl4Vs9bpo

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