Metti una sera al Master di Torino, con Sinner che si beve Medvedev (come una vodka..)

Dal nostro inviato Teo Parini

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Sulla carta è l’evento clou della stagione tennistica. I primi otto giocatori al mondo, i più bravi negli ultimi dodici mesi secondo il parere insindacabile del computer, che si scontrano tra di loro con in palio il titolo di maestro. Masters, appunto, il nome storico e pure nostalgico di quelle che oggi si chiamano ATP Finals e si disputano in Italia per il quarto anno di fila. A Torino, nella cornice dell’Inalpi Arena con vista sullo stadio Grande Torino, storica casa calcistica granata. Epica chiama epica. Eppure la manifestazione, da sempre uguale a sé stessa nella formula, continua a non convincere fino in fondo. Perplessità che serate come quella di ieri fanno tornare prepotentemente a galla.

Il Masters, perché noi che abbiamo più di una quarantina di primavere alle spalle fatichiamo ad aggiornare il nome alla denominazione corrente, ha una peculiarità unica: può essere vinto da un giocatore che ha perso uno o, in casi eccezionali ma possibili, anche due match. Il contrario del principio cardine del tennis che sposa per genesi la regola del ‘chi perde va a casa’. Non qui. Di più, perché può pure essere che due giocatori si affrontino sia nel round robin che, successivamente, in finale e possa laurearsi campione quello che è uscito sconfitto dalla partita nel girone. Se vogliamo, non è nemmeno questo il problema più spinoso.

La sessione serale appena archiviata prevedeva l’incontro, che ormai è un classico, tra il numero uno al mondo Sinner e il russo Medvedev, oggi ‘solo’ numero quattro del ranking per via di un periodo di appanamento piuttosto duraturo ma che resta giocatore formidabile, purché abbia voglia di spendere del sudore e non è affatto scontato. Daniil, nella partita di esordio, perdeva malamente con Fritz e, pertanto, il suo destino qui a Torino aveva smesso di essere nelle solo sue mani. Anche dopo aver battuto De Minaur nel secondo match, perché a poche ore dallo scontro decisivo con l’italiano a fare lo stesso era stato l’americano, con il risultato che per qualificarsi alla semifinale Medvedev avrebbe dovuto non solo vincere ma farlo senza concedere un set.

Per tornare alle perplessità della formula, e per quanto appena detto, il match tra Sinner e Medvedev è durato un lampo, il tempo impiegato da Jannik per strappare il servizio all’avversario, cioè una manciata di game, incanalando dalla sua parte le sorti del primo parziale, poi chiuso qualche minuto più tardi. Una ventina di minuti e fine dei giochi. Con uno o due set ancora da giocare, il match si è fatto esibizione. Di lusso ma esibizione, proprio perché ormai ininfluente per il proseguo del torneo. Dispiace perché, qualora messi nelle condizioni, sono due campioni in grado di regalere un tennis di qualità decisamente superiore rispetto a quanto esibito ieri. Tuttavia, ci si può benissimo mettere nei panni di entrambi che, seppur professionisti, vivono anch’essi di motivazioni.

La storia della manifestazione è ricca di situazioni similari. Come è ricca di partite perse volontariamente senza combattere ma, in quel caso, per evitare in semifinale l’incrocio con un avversario meno gradito, avendo già superato matematicamente il girone all’italiana. Emblematico fu il caso di Lendl di una vita fa, ma se ne contano a decine, quando, pur di non incrociare la racchetta di Borg, il cecoslovacco perse senza opporre resistenza contro Connors che in tutta risposta lo etichettò come “chicken” in mondovisione. Pollo. Per la cronaca, e pure per un minimo di giustizia divina, Lendl avrebbe poi perso la finalissima, proprio contro lo svedese inutilmente scansato il giorno precedente.
Il resto, però, è sempre un grande spettacolo con Torino brava a non far rimpiangere le organizzazioni precedenti. All’ingresso dell’area dedicata all’evento, una gigantografia porta con sé la miglior definizione possibile: ‘Where Champions become Champions”. Le Finals, questa volta proprio grazie alla rivedibile formula, non possono essere vinte che da un campione. Perché, senza fare troppo gli schizzinosi, non c’è modo diverso per definire uno dei migliori otto interpreti della disciplina sul pianeta Terra. Lapalissiano, i campioni non sono tutti uguali e, per esempio, un Ruud non potrà mai valere un Alcaraz, ma il pregio è, appunto, quello di mettere al via il meglio che offre il panorama mondiale.

Dell’atmosfera da gesti bianchi degli albori, in campo e sugli spalti, non è sopravvissuto un granché. Non lo si scopre certo oggi, è non si tratta nemmeno di essere quelli che ad ogni costo ‘si stava meglio prima’, ma il dj set servito al massimo volume ad ogni cambio di campo dal vivo fa un certo effetto. La domanda, semmai, è cosa ne pensino dello show collaterale i giocatori, che in quei pochi secondi di pausa tra un game e l’altro dovrebbero mantenere alta la concentrazione e, se necessario, riordinare le idee. Con i Seven Nation Army a palla, immaginiamo possa essere difficile per un tennista isolarsi dal contesto, ma è ciò che accade ora. In compenso, il clima da party piace alla gente che, non è un mistero, pare sempre divertirsi.

Con Sinner in campo, inoltre, il clima è quello da Coppa Davis, dunque chiassoso. I cori quasi calcistici che il pubblico gli dedica rimandano ai pomeriggi da torcida degli anni ’90; quelli dell’Italtennis operaia e ruspante a caccia del sogno Davis, degli spalti infuocati di Maceió, del gladiatore Gaudenzi pilotato dal mito Panatta e del compianto Galeazzi al microfono. Insomma, fatte le debite proporzioni, la sensazione percepita i tribuna è quella. Sinner che, en passant, vola in semifinale senza manco aver perso un set in tre match e menomale che avrebbe potuto faticare parecchio a causa di un malanno che l’ha colpito alla vigilia. Francamente, con Alcaraz moribondo come sempre gli succede da luglio in poi, non si vede come possa non vincere il torneo. Ma, si sa, i pronostici li sbaglia soltanto chi li fa.
Chiosa finale di carattere più generale. Una cosa è il tennis visto dalla tivù, un’altra lo è visto da bordo campo, dove le difficoltà dello sport del diavolo emergono alla potenza enne. Se il video tende a smorzarla, è dal vivo che si percepisce fino in fondo la velocità, ai limiti dell’umano, che caratterizza sia il moto della pallina che degli spostamenti dei giocatori, i cui tempi di reazione occhio-braccio sono infinitesimi e si fatica a comprendere come ciò sia possibile. Sinner, ma pure il suo rivale, risponde con disinvoltura a bordate di servizio che oltrepassano la soglia dei duecento chilometri orari con inesausta continuità di rendimento. Insomma, fare un ace, oggi, è quasi un capolavoro e non solo per via di campi allentati e palline pure. I giocatori sono fulmini da cartoon giapponese.

E se le partite regalano pathos e agone, a lasciare esterrefatti – paradossale, ma fino ad un certo punto – sono i pochi scampoli di palleggio di riscaldamento, quando i giocatori chiedono a loro stessi la massima perfezione e pulizia del gesto tecnico e tutto sembra di una semplicità disarmante. Manuali di tecnica tennistica ed eleganza in carne ed ossa, più danza classica che rincorsa bruta alla pallina. Tutti, nessuno escluso. Poi, per ovvie ragioni, con in ballo il quindici da conquistare la funzionalità prende il sopravvento, ma è in quei pochi minuti che i campioni di tale risma ci ricordano perché noi, comuni mortali, ci siamo fermati in terza categoria sentendoci dei fenomeni, peraltro. Abbacinante bellezza per chi vive a pane e tennis.

Ci sarebbe anche la questione, in questo caso poco simpatica, del caro-biglietti ma non riguarda il solo Masters e meriterebbe un discorso a sé. Qui ci limitiamo a far notare che più di centocinquanta euro per assistere ad un singolare e un doppio fanno del tennis una questione elitaria, per pochi privilegiati. L’antitesi del significato pedagogico dello sport, per tutti e di tutti, che essendo spaccato di vita quotidiana finisce inevitabilmente per rispondere alle stesse esecrabili dinamiche sociali. Ed è un vero peccato, perché lo spettacolo del tennis di vertice dovrebbe essere patrimonio dell’umanità e non dei più fortunati. Ma tant’è.

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